Di 'contact tracing' in funzione anti Covid 19 si parla da settimane. Ma la scelta di “Immuni”, l’App che dovrebbe consentire il tanto atteso ‘tracciamento’, non sembra aver fugato completamente dubbi e perplessità.
Il ministro della Salute invita a non giudicarla una “mossa salvifica”, diverse forze politiche invocano la necessità di un confronto in Parlamento, lo stesso Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica promette di occuparsene già nella seduta di mercoledì trattandosi di “materia afferente alla sicurezza nazionale". E al di là delle specifiche tecniche, ancora abbastanza nebulose, manca anche il parere formale del Garante della privacy, Antonello Soro. Parere che in realtà al momento non è stato ancora richiesto.
Solo su base volontaria
Nell’audizione davanti alla commissione Trasporti della Camera Soro ha fissato alcuni paletti. Primo tra tutti, la volontarietà del download.
Nessuna imposizione, nessuno “scivolamento inconsapevole dal modello coreano a quello cinese, scambiando la rinuncia a ogni libertà per l’efficienza e la delega cieca all’algoritmo": l’adesione dei singoli non può che essere volontaria e, elemento se possibile ancora più importante, il consenso al trattamento dei dati non deve risultare in alcun modo ‘condizionato’, ovvero “prefigurato - spiega Soro - come presupposto necessario per usufruire di determinati servizi o beni”.
Certo, gli esperti valutano che il sistema funzionerà solo se verrà adottato da una percentuale minima del 60% degli italiani, ma per convincerli non bisogna far leva su alcuna forma, più o meno esplicita, di ‘premialità’: meglio, molto meglio, fa notare Soro, sensibilizzare i cittadini “sull’opportunità di ricorrere a tale tecnica, anche solo a fini egoistici, ovvero per essere informati di essere stati potenzialmente e inconsapevolmente contagiati tramite un contatto con soggetti positivi”.
Nel conto andrebbe in effetti messo anche che non tutti posseggono uno smartphone e che non tutti - proprio tra quegli anziani che avrebbero bisogno di maggiore tutela - sanno usarlo al pieno delle potenzialità. Ma questa è un’altra storia.
Meglio il bluetooth
Il no alla geolocalizzazione è condiviso a livello europeo, così come l’opportunità di fare ricorso invece al bluetooth “che - spiega Soro - restituendo dati su interazioni più strette di quelle individuabili in celle telefoniche assai più ampie, pare migliore nel selezionare i possibili contagiati all’interno di un campione più attendibile perché, appunto, limitato ai contatti significativi”.
In particolare, sono da preferire “quelle tecnologie che mantengono il diario dei contatti esclusivamente nella disponibilità dell’utente, sul suo dispositivo, ragionevolmente per il solo periodo massimo di potenziale incubazione”.
In sostanza, il soggetto entrato inconsapevolmente in contatto con un ‘positivo’ al virus riceve sul suo device una segnalazione (nella forma di un alert sul sistema o di una chiamata della stessa Asl) di potenziale contagio, con l’invito a sottoporsi agli accertamenti del caso.
"In tal modo - osserva il Garante - il tracciamento sarebbe affidato a un flusso di dati pseudonimizzati, suscettibili di reidentificazione solo in caso di rilevata positività. Anche in tali casi, comunque, la stessa comunicazione tra server centrale e App dei potenziali contagiati avverrebbe senza consentirne la reidentificazione, così minimizzando l’impatto della misura sulla privacy individuale”. ‘Immuni’, a quanto si sa, sembra andare in questa direzione.
Necessaria una norma
Un trattamento dati personali di questo tipo, secondo il Garante, “benché non massivo, richiederebbe una norma di rango primario”. Quale? Un decreto-legge, ad esempio, strumento che “assicura la tempestività dell’intervento, pur non omettendo il sindacato parlamentare né quello successivo di costituzionalità, diversamente dalle ordinanze".
Di un testo di questo tipo non si ha ancora notizia, ma laddove non si procedesse a un intervento legislativo ad hoc - suggerisce Soro - sarebbe opportuna una modifica del dl 14/20.