“Noi farmacisti siamo stati lasciati allo sbaraglio, i dispositivi di protezione individuali nel primo periodo non li abbiamo avuti neanche per noi, mentre centinaia di persone sono arrivate a chiederceli”. È il racconto di Maria Silvia Calvino Ramaccio, 35enne, titolare della farmacia San Faustino di Nembro, paese più colpito dal coronavirus, insieme al vicino Alzano Lombardo (di cui è originaria).
Un racconto, quello dei giorni dell’emergenza, fatto di momenti di “isteria”, momenti di “rassegnazione e lacrime”: “Non solo le mie: in alcuni istanti ho avuto l’impressione di essere diventata ‘un contenitore di lacrime’ per tutti i miei concittadini”.
È stata la seconda settima di marzo la più dura, quando i due comuni della Valle Seriana hanno ricevuto le perdite più consistenti: “Ho passato un’intera settimana a fare condoglianze al telefono. A Nembro si parla di più di 200 morti, ma i numeri non sono precisi perché i tamponi non vengono fatti”.
“Noi farmacisti siamo la prima linea sul territorio - spiega -. A inizio marzo abbiamo avuto una marea di persone ammalate che sono venute prima da noi rispetto che andare dal proprio medico. Anche perché a Nembro, su 6 medici di base, a un certo punto 5 si sono ammalati e hanno dovuto andare in quarantena. Ai pazienti non restava che guardia medica o la farmacia. Solo quando sono arrivati i sostituti si è potuto respirare, ma la popolazione era disorientata”.
Il momento peggiore? Nella notte tra il 14 e il 15 marzo “quando sono arrivate 50 richieste di bombole in un solo turno. Una quantità disumana che non viene ordinata nemmeno in un anno, di solito. Eravamo nel pieno dell’epidemia e io sentivo persone che venivano in negozio magari per comprare degli integratori fino a qualche giorno prima, e che invece in quel momento avevano bisogno dell’ossigeno per respirare. Negli ospedali non c’era più posto quindi non avevano alternativa”.
Ha dovuto dire di no? : “Purtroppo è capitato: potevamo al massimo arrivare a 20 bombole, non le avevamo e i fornitori non riuscivano ad evadere gli ordini. Ogni volta che dici no ad un paziente sai che quello potrebbe morire”.
E così è successo: “So di alcuni che sono adesso in terapia intensiva, come un amico, di 50 anni che sta combattendo tra la vita e la morte. So di anziani a cui abbiamo portato la bombola, in una corsa contro il tempo, ma che non ce l’hanno fatta in casa loro e senza tampone. So di altri per cui quell’ossigeno è stato tutto”.
Chi ce l’ha fatta ha avuto la forza di scrivere un messaggio: “Grazie dottoressa, ci ha salvato la vita”. Una “tragedia epocale” la definisce la farmacista, quella a cui si è trovata davanti la tranquilla valle bergamasca: “Solo adesso capiamo di essere tra i paesi più colpiti del mondo. Già da metà febbraio avevamo uno strano flusso di persone con tosse persistente e stizzosa, febbre altalenante, gente che diceva di non sentire più olfatto e gusto”.
Poi, dal 24 febbraio, quando è successa quella che chiama la ‘baraonda’ all’ospedale di Alzano - ovvero l’arrivo del primo paziente a la mancata chiusura del pronto soccorso, che avrebbe riverberato il contagio - “la situazione è degenerata. E non se ne è ancora usciti" Maria Silvia risponde a questa intervista durante una sessione di consegne a domicilio, in cui è impegnata tutte le mattine:
“Il numero è cresciuto in modo impressionante: ricevo la media di 400 chiamate al giorno, non abbiamo tempo di pensare, di cedere”, confessa la giovane farmacista, che solo due anni fa, dopo aver vinto un concorso, aveva investito tutti i suoi risparmi nell’attività: “Non avrei mai pensato di trovarmi in questa situazione. Ma ora ho realizzato che questo lavoro è una missione. Ècambiato completamente: siamo passati dal vendere creme e integratori al saturimetri, ossigeno e antibiotici. E a vivere con una costante angoscia”.
Se una cosa questa tragedia dovrà insegnare “è la collaborazione sul territorio tra farmacie, ma anche tra noi e i medici. La presenza in mezzo alle persone, perché è solo così che si possono raggiungere tutti”.
Ora ci si scontro invece con l’esigenza di mascherine: “Ci siamo attivati con le nostre forze e le abbiamo trovate dopo decine di tentativi nei canali che di solito riforniscono i ferramenta”, spiega Maria Silvia . E poiché in zona moltissimi sono i pazienti positivi o sospetti positivi che si trovano ancora a casa, l’uso della mascherina “è vitale per sé e per i loro familiari”. Tuttora, “trovarle grazie ai soliti canali intermedi resta difficilissimo”.
E la riflessione della dottoressa è proprio alla mancata preparazione con cui si è arrivati all’emergenza: “Se a gennaio si fosse preparato un piano, prevedendo che quest’epidemia avrebbe potuto raggiungerci, il governo avrebbe ancora potuto fare qualcosa per approvvigionare i propri medici, infermieri e farmacisti”. La speranza ora è riposta in un’azienda della Val Seriana, che “le produce e sono di ottima qualità”.