Viene documentata anche la “sparizione di mascherine, soprattutto chirurgiche, dagli armadi dei reparti” nei bollettini quotidiani interni al Pio Albergo Trivulzio, il ‘registro ufficiale’ di quanto accaduto nella casa di riposo milanese da quando il coronavirus ha iniziato a bussare alle sue porte. E più batte forte, più crescono le preoccupazioni, come si evince dai documenti letti dall’AGI e firmati anche dal direttore Giuseppe Calicchio, indagato per omicidio colposo. Mai, in questi fogli, a febbraio e marzo si fa riferimento a ospiti che avrebbero contratto il Covid_19, ma solo ad aprile.
Sindacati e personale denunciano – e questo è anche il cuore dell’inchiesta della Procura – che decine di morti per l’infezione in quei due mesi sarebbero stati ‘nascosti’ e non sarebbero stati utilizzati, fino a oltre la metà di marzo, dispositivi di protezione individuale. Addirittura, in una fase, sarebbero stati fatti levare a chi li metteva “per non creare allarmismi”.
Nei primi bollettini viene scritto che le mascherine, seguendo le disposizioni delle circolari ministeriali, vanno messe solo quando “si sospetti di essere malato o si assistano persone malate”. E in seguito si rimanda, per il loro uso, a indicazioni 'superiori' come quelle regionali e dell’Istituto Superiore della Sanità.
Si parte dal 23 febbraio quando si legge che “con l’esclusione dei Comuni con accertata trasmissione locale, il rischio di contrarre l’infezione è attualmente basso”. Il 26 febbraio si da’ notizia di alcuni pazienti con sintomatologia respiratoria, ritenuta non riconducibile al virus. Dal bollettino del 2 marzo, si sa che l’ingresso di pazienti e familiari e visitatori presenta dei limiti di orario, ma possono in ogni caso entrare per pranzo e cena.
Due giorni, dopo l’episodio delle mascherine scomparse accompagnato dalla “raccomandazione di sorvegliare attentamente che all’interno dell’azienda nulla venga impropriamente rimosso”. “Qualsiasi comportamento improprio dovrà essere segnalato – si avverte - e sarà perseguito ai sensi della normativa di legge”. Un’operatrice socio-sanitaria, Nana, aveva raccontato all’AGI che “due persone erano venute portare vie le mascherine che stavano in un armadio chiuso con la chiave e le avevano portate via dicendo che le avrebbero date a chi ne aveva davvero bisogno. C'era stato spiegato che la regione Lombardia non prevedeva l’obbligo per noi di indossarle”. Il 6 marzo si fa riferimento alla prima sospetta paziente di Covid, risultata poi negativa la tampone. I familiari ora possono entrare uno per volta , comunque “senza limitazioni di orario”
L’11 marzo si allude a 17 pazienti no-Covid provenienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni nell’unità Pringe. Si continua, quindi, a entrare e uscire dalla struttura. Il 13 marzo si informa che “la giacenza di mascherine FFP2 è scarsa e in via di esaurimento, motivo per cui raccomandiamo l’uso delle stesse solo se indicato dalle disposizioni regionali note”.
Ancora tre giorni dopo si ribadisce di utilizzarle, vista la penuria, “solo se indicato dalle disposizioni regionali note”. Il 21 e il 23 marzo si registra l’arrivo di migliaia di mascherine, in parte acquistate dal Pat e in parte avute dalla Protezione Civile. E’ in questa occasione che chi scrive il bollettino precisa di “non avere mai fatto mancare i DPI come indicato dalle autorità competenti e di averli introdotti nelle situazioni di potenziale rischio (aerosol) anche senza sospetti casi di Covid già dal 23 febbraio per poi prevederne graduale estensione secondo le linee guida indicate”.
Solo nei bollettini di aprile emergono i primi casi di pazienti risultati positivi che vengono messi in isolamento. A marzo e febbraio erano descritte le situazioni di numerosi ospiti con difficoltà respiratorie, nessuno però, questa è la versione ufficiale, colpito da Covid.