"Anche qui è arrivato il coronavirus. Come in Italia anche noi abbiamo le stesse restrizioni da parte del governo. Ci sentiamo molto in comunione con voi dell'Italia perché spesso ci colleghiamo anche a iniziative dei vescovi italiani e di alcune diocesi in particolare. Oltre che un modo per pregare, è per noi un modo di condividere, di portare un pezzetto di croce insieme agli italiani che stanno soffrendo in modo particolare per il contagio, per la morte di qualche caro e soprattutto per il tanto lavoro e impegno del servizio sanitario, ma crediamo in ciascun italiano che si impegna in questa situazione difficile".
Sostegno e timori dall'Albania espressi da volontari e religiosi italiani da anni impegnati al di là dell'Adriatico. Tra loro le Sorelle Francescane del Vangelo, anima della comunità di Bilisht, nel sud del Paese, vicino al confine con la Grecia. Dall'Albania nei giorni scorsi sono giunti 30 medici per dare manforte all'Italia. Le religiose in contatto con i tanti in Italia che sono passati dalle loro parti per animare le realtà più povere e isolate, parlano del divieto di uscire dalle proprie città o villaggi: si può uscire di casa solo per un'ora, dalle 5 alle 13, e solo un membro della famiglia. Tutte le scuole sono chiuse, negozi e uffici, rimangono aperti solo gli alimentari.
"La situazione - aggiungono dialogando a distanza con i giovani dell'Oratorio di Borgosesia, tra i gruppi che hanno collaborato negli anni - è un po' surreale, è strano non vedere nessuno per strada e quei pochi che vedi stanno con mascherine e guanti". Forse, raccontano ancora le Sorelle Francescane, "un po' di paura c'è pure qui! Ci si chiede se i dati che i Tg nazionali danno sono reali, cioè sono realmente questi i numeri o no? E soprattutto siamo veramente in grado, come nazione, di affrontare il coronavirus? I nostri ospedali, i nostri medici sono pronti a combattere con il nemico invisibile?".
Parlano della bellezza di "sentirsi uniti" attraverso i mezzi di comunicazione, i collegamenti in streaming. Riferimento importante è il vescovo da anni alla guida dell'amministrazione apostolica, il pugliese Giovanni Peragine, come lo è stato anche durante il recente terremoto. Proseguono: "Anche noi come tutti siamo in casa e usciamo pochissimo! Abbiamo dovuto modificare il nostro essere missione, purtroppo non possiamo andare nei villaggi, nelle case, non possiamo fare le attività con i bambini"
Ma si sta cercando di sentirli più spesso: "Insomma cerchiamo di stare con loro in modo diverso, alternativo. E poi ci sono i poveri che hanno sempre bussato alla nostra porta, che in questo tempo hanno ancor più bisogno e sentono maggiormente l'incertezza del momento. Anche con loro abbiamo cercato, con tutte le precauzioni dovute, di non chiudere la nostra porta condividendo con loro quello che abbiamo".
Anna è una volontaria della diocesi di Bergamo, arrivata qui ad ottobre per seguire un progetto che coinvolgeva tre ragazze adolescenti di un villaggio vicino, Vidohove, trasferitesi a Bilisht per poter proseguire i loro studi alla scuola superiore. "Vivevo in un piccolo appartamento con loro - spiega - e cercavo di accompagnarle nella quotidianità, gestendo la casa e il loro impegno a scuola, e partecipavo alla vita della giovane comunità cattolica di Bilisht. Tutto questo si è interrotto bruscamente a causa dell'arrivo e della diffusione del virus".
Da un giorno all'altro le scuole sono state chiuse anche qui, le ragazze sono dovute tornare a casa nel loro villaggio e Anna, racconta, ha iniziato a chiedersi: "Perché? Perché non posso più essere accanto alle ragazze come prima? Perché devo stare lontana dalla mia comunità di Bergamo proprio in questo momento difficile? Perché mi viene chiesto di vivere la mia missione in questo modo che tante volte mi fa sentire 'inutile' e impotente? Ormai è quasi un mese che la mia quotidianità è cambiata, le sorelle mi hanno accolta con tanta generosità, allegria e delicatezza. E in queste settimane ho capito che i miei passi e le mie scelte hanno un senso".
"Mi viene spontaneo in questi giorni fare memoria dell'esperienza vissuta nel 1997 - dice 'motra' Silvia, responsabile della comunità di Bilisht - durante la guerra civile e quella, qualche anno dopo, con l'accoglienza dei fratelli Kosovari. Ma questa volta mi sembra ancora più dura e incomprensibile umanamente... pur nella difficoltà e rischiando la vita, nelle due esperienze precedenti, potevamo incontrare la gente, consolare, dare una parola, stringere la mano, guardarsi negli occhi pur non parlando la stessa lingua".
Sorella Daniela si trova da ottobre in fraternità: "Avevo iniziato a inserirmi timidamente ad alcune attività missionarie come andare nei villaggi, le visite alle famiglie, la catechesi ai bambini, il contatto con la gente povera, i vicini e poi e arrivato il coronavirus che ci ha costrette a restare in casa, a non celebrare con la comunità, a non accogliere e non andare, a non toccare, a restare a debita distanza e tutto quello che già sapete e vivete pure voi! Tutto questo mi sta facendo vivere la missione non solo come un 'qualcosa da fare', ma come un 'essere vicini', come un condividere ciò che la vita ci mette davanti con semplicità".