Il professor Girolamo Sirchia sta trascorrendo il periodo di “isolamento” nella sua casa di Como. Di epidemie se ne intende: quando era ministro della Salute del secondo governo guidato da Silvio Berlusconi, ha dovuto affrontare l’emergenza Sars, e poi ha un’età tale da ricordarsi anche la temibile “asiatica” che alla fine degli anni ’50 fece due milioni di morti in tutto il mondo. Nonostante queste esperienze passate, dice in un’intervista all’AGI, l’attuale pandemia ci ha colti impreparati: “è incredibile che siamo arrivati a questa emergenza senza preparare niente: siamo stati imprevidenti e questo ci ha costretti all’improvvisazione”. La reprimenda vale non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa e anche il resto del mondo, Stati Uniti compresi. Anche se, ammette l’ex ministro rimasto nella memoria di tutti come colui che abolì il fumo nei locali pubblici, “oggi si sta facendo il massimo di quello che è possibile fare in una situazione di tale emergenza: rispetto molto le azioni del governo e della Regione Lombardia, già attivarsi e riuscire a fare queste cose è importante”. Sirchia punta il dito contro i tagli alla spesa sanitaria degli ultimi decenni.
Professor Sirchia, perché secondo lei il servizio sanitario italiano non riesce a far fronte all’emergenza coronavirus?
“E’ stato prosciugato, sono stati fatti danni enormi. Sono mancate le risorse e la sanità ne è uscita distrutta. Nel 2005, quando ero ministro, il fondo sanitario contava su circa 110 miliardi, oggi, 15 anni dopo, sono 115. La sanità pubblica è stata massacrata con tagli lineari, blocco del turn over, la distruzione di servizi che funzionavano: per il pareggio di bilancio a tutti i costi è stato distrutto un bene fondamentale del paese”.
Che cosa si sarebbe potuto fare per prevenire l’emergenza?
“Il ministero ha perso potere. Oggi ha poche risorse e capacità e conta poco. Nel 2003-2004, su indicazioni degli organismi internazionali della Salute, anche in Italia come negli altri paesi e anche in Ue, era stato istituito un Cdc, centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, che era servito ad affrontare l’emergenza Sars. Ora che fine ha fatto? Non se ne sente più parlare. Lo stesso vale per l’agenzia europea che ha sede in Svezia: sono istituzioni che avrebbero dovuto prepararsi alle eventuali grandi epidemie, stabilendo un piano per affrontarle a livello nazionale e globale. Le epidemie sono decine ogni anno nel mondo, e ogni 100 anni al massimo ce n’è una di queste dimensioni: ma nessuno ha preparato un piano di contrasto, nemmeno quando il virus aveva già cominciato a circolare e a mostrarsi pericoloso in Cina. Questo è particolarmente grave: che manchino mascherine e ventilatori, è inaccettabile”.
L’Europa avrebbe potuto fare di più?
“Esiste in Svezia un’agenzia Ue che si chiama proprio Centro europeo per la prevenzione e il controllo della malattia (ECDC). Dovrebbe essere il pilastro della prevenzione, il suo compito sarebbe quello di stabilire dei protocolli comuni, la gestione unita della crisi. Invece mentre in Italia eravamo già chiusi in casa con scuole, negozi e uffici chiusi a pochi chilometri, in Francia per esempio, si gozzovigliava”.
Come valuta l’attuale gestione della crisi?
“Rispetto molto quello che stanno facendo il governo e la Regione Lombardia. Ammiro i sacrifici di tutti e soprattutto delle persone che lavorano in ospedale. Stiamo tutti pagando il prezzo dell’idiozia di una classe dirigente italiana e internazionale che negli anni passati non è stata all’altezza. Possibile che le epidemie dei decenni scorsi, la Sars, la Mers e Ebola, che pure hanno provocato un sacco di morti anche se non qui da noi, non abbiamo insegnato niente? E’ dai tempi della spagnola, un secolo fa, che dalla Cina partono le pandemie: l’asiatica della fine degli anni ’50, poi la Sars 15 anni fa: se non ha provocato vittime da noi è perché eravamo preparati e siamo stati fortunati. Abbiamo messo in piedi un meccanismo di difesa, di valutazione del rischio e per preparare i piani di contrasto. Ora non ho visto nessun piano di contrasto, non solo prima, ma nemmeno quando in Cina la situazione è esplosa. Questo è grave”.
Lei ha fondato ed è tuttora il presidente dell’Associazione dei Donatori di sangue del Policlinico di Milano, uno dei più importanti con 30 mila donazioni. Com’è la situazione?
“I primi giorni della chiusura lombarda, la gente non sapeva se poteva uscire per donare e abbiamo avuto un momento in cui eravamo sotto i nostri standard di raccolta. Il sangue è essenziale per le trasfusioni non solo nel corso degli interventi chirurgici, ma anche per tutti quei malati che ne hanno bisogno per vivere: talassemici, malati di leucemia, trapiantati. Noi riforniamo una decina di ospedali e c’è stato un appello. Ora, grazie alla grande e generosa risposta dei nostri donatori, siamo tornati a livelli normali”.