Chiese chiuse o aperte? Rinunciare al "popolo" e affidarsi ai social o tenere aperto uno spiraglio per l'approccio fisico, il "corpo di Cristo", imprescindibile per la fede? È il dilemma che, nel tempo dell'epidemia da coronavirus, vivono i vescovi, e le diocesi a loro affidate.
A partire da quella di Roma, che ha dovuto correggere il decreto emanato dal cardinale vicario Angelo De Donatis con cui venivano chiuse tutte le chiese, parrocchiali e non.
Poi è stato disposto che restino "aperte le chiese parrocchiali e quelle che sono sedi di missioni con cura di anime ed equiparate". Qualche ora prima era stato Papa Francesco nell'omelia di Santa Marta, trasmessa in streaming, a lanciare un monito ai vescovi sottolineando che "le misure drastiche non sempre sono buone", e pregando che "lo Spirito Santo dia ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinchè provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio".
Il cardinale De Donatis invoca un "saggio discernimento"
"Cari sacerdoti, ci affidiamo al vostro saggio discernimento. Siate vicinissimi al popolo di Dio, fate sentire ciascuno amato e accompagnato, aiutate tutti a percepire che la Chiesa non chiude le porte a nessuno, ma che si preoccupa che nessun 'piccolo' rischi la vita o venga dimenticato", ha successivamente scritto, rivolgendosi ai sacerdoti, il cardinale De Donatis.
La decisione di chiudere o lasciare aperti i luoghi di culto non deve essere stata presa senza attriti all'interno del mondo ecclesiastico. A indicare una "disparità di posizioni", sono l'arcidiocesi di Catania, la diocesi di Acireale e quella di Caltagirone - rette, rispettivamente, da Salvatore Gristina, Antonino Raspanti (quest'ultimo tra i vicepresidenti della Cei) e Calogero Peri - che, affermando di "non voler entrare in un clima di polemiche", lasciano aperti i luoghi di culto "per entrarvi a pregare, per vivere il sacramento della Riconciliazione, per scambiare una parola con il sacerdote, qualora ci troviamo a passare per i casi previsti dall’autocertificazione".
"Tutti siamo d'accordo sulla responsabilità da esercitare - affermano Gristina, Raspanti e Peri - ma sul come esercitarla, ad esempio: se chiudere totalmente le Chiese o no, c'è disparità di posizioni. Siamo consapevoli che ogni scelta, in situazione di grave emergenza come l’attuale, apre a considerazioni persino contrapposte; è tuttavia un atto di discernimento pastorale che cerchiamo di compiere ascoltando lo Spirito nella comunione della Chiesa, a servizio del Popolo di Dio".
Sulla stessa linea sembra essere, parzialmente, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, che ha scelto di tenere aperte le chiese tutti i giorni, seppure solo per alcune ore della mattina. I parroci saranno a disposizione dei fedeli per le confessioni e "per offrire una parola di conforto e di incoraggiamento", nel rispetto comunque delle norme indicate nel decreto del governo. "È la testimonianza - spiega la Curia - di una Chiesa che da una parte, attraverso i suoi sacerdoti, resta aperta al popolo di Dio facendosi carico della esigenza spirituale di ogni fedele", pur senza la celebrazione della messa.
Quando la messa è social
La sorte di quest'ultima viene affidata, altrove, ai social. E' il caso della diocesi di Palermo, il cui arcivescovo Corrado Lorefice detterà la riflessione sulla Via Crucis e presiederà l'Eucaristica, che sarà diffusa sul canale Facebook dell'Arcidiocesi. Così la stessa intercessione dei santi contro il contagio viene invocata virtualmente: il Vescovo di Cefalù, Giuseppe Marciante, la chiedera' alla Madonna e quello di Siracusa, Salvatore Pappalardo, a Santa Lucia: i fedeli dovranno accontentarsi di dirette dalla pagina Facebook.
Così anche a Torino l'arcivescovo Cesare Nosiglia, domenica celebrerà l’eucarestia in diretta streaming e poi reciterà l’Angelus. Alle 12 tutte le parrocchie di Torino e Susa faranno suonare le a distesa le campane, "in segno di unità e di solidarietà verso tutti gli Italiani in questo momento di sofferenza". Il rumore spezzerà il silenzio delle città e scuoterà l'anima, come il contatto fisico, per dirci che siamo ancora vivi.