Quando la domanda che tutti si aspettavano gli fu finalmente posta, Papa Francesco evocò anni passati, ma non da troppo tempo. Tempi calamitosi quali furono gli ultimi Anni '60, con un mondo in fiamme e una Chiesa chiamata ad assimilare i dettami del Concilio senza scivolare nel Nuovo Catechismo della chiesa olandese. Anche all'epoca il dibattito era aperto: è lecito autorizzare il matrimonio dei presbiteri?
Niente di nuovo, sotto il sole della cattolicità: se i primi no all'ipotesi matrimoniale risalgono a prima degli editti di Costantino, altrettanto antica - o quasi - è la tendenza a disattendere il precetto. In pieno Medioevo, ricorda laicamente Georges Duby nel suo "Il cavaliere, la donna e il prete", soprattutto nelle campagne c'era chi indugiava al vivere "more danico", che poi non altro è se non la convivenza come la praticavano molti discendenti dei barbari del Nord.
La circostanza deve far riflettere, perché la Chiesa riformata dai cistercensi combatté il fenomeno dei preti ammogliati non solo per una questione di dottrina, ma anche per una di disciplina ed una di qualità, diciamo così, del servizio alla Chiesa stessa. In altre parole: non solo di rispetto per le antiche disposizioni si trattava, né per uno dei punti dirimenti che rendeva i latini così diversi dagli orientali appena separatisi in un doloroso scisma. In quest'ottica i sacerdote celibe è maggiormente concentrato sulla sua missione (come stabilirono al Concilio di Elvira nel 306), ma è anche meno disposto a mettere in discussione l'unità della Chiesa sotto altri punti di vista, perché la sua adesione ad essa è ancora più totale.
Infine l'autorizzazione al matrimonio rende le vocazioni senz'altro più facili da accettare, ma al tempo stesso in qualche modo le depotenzia: si può far strada l'idea di una carriera ecclesiastica equiparabile ad un qualsiasi tipo di impegno lavorativo. Il sacerdote come un impiegato che smette a una certa ora, e rientra a casa. Niente di più lontano dall'idea di missione. Bergoglio, quando gli chiese una giornalista un'opinione in materia, si trovava - un anno fa esatto - di rientro da Panama, in volo sull'Oceano. La sua risposta fu netta. Eccola: "Nella Chiesa cattolica di rito orientale possono farlo, si fa l'opzione celibataria o di sposo prima del diaconato. Per quanto riguarda il rito latino, mi viene alla mente una frase di san Paolo VI: 'Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato'". Un richiamo, quello a Montini, dal significato ancor più netto: fu proprio Paolo VI a promulgare un'enciclica nel 1967 per mettere in chiaro un paio di cose, a proposito.
In caso di dubbi residui, Francesco aggiunse: "Questo mi è venuto in mente e voglio dirlo perché è una frase coraggiosa, lo disse nel 1968-1970, in un momento più difficile di quello attuale. Personalmente penso che il celibato sia un dono per la Chiesa e non sono d'accordo a permettere il celibato opzionale. No. Soltanto rimarrebbe qualche possibilità nei posti lontanissimi, penso alle isole del Pacifico, ma è qualcosa da pensare quando c'è necessità pastorale. Il pastore deve pensare ai fedeli. La mia decisione è: no al celibato opzionale prima del diaconato".
Si presti attenzione al richiamo ai "posti lontanissimi" e alle "necessità pastorali", perché la questione è riemersa negli ultimi mesi a proposito del sinodo dedicato all'Amazzonia. Così vicina alle brame degli uomini, così lontana per le esigenze dello Spirito. Sembra fatta apposta per bruciare a causa delle prime e suscitare passioni altrettanto roventi riguardo al secondo. Il sinodo, nella sua fase di preparazione, scrisse con toni diplomatici: "Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i Sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana".
E poi, alla fine dei lavori, concluse: "Proponiamo di stabilire criteri e disposizioni da parte dell'autorità competente di ordinare sacerdoti uomini adatti e riconosciuti della comunità, che abbiano un proficuo diaconato permanente e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia legalmente costituita e stabile da sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle aree piu' remote della regione amazzonica".
La traduzione potrebbe essere questa: negli angoli più remoti si accettino figure straordinarie per permettere agli ultimi della Terra il sollievo della Parola di Dio, e dell'Eucarestia. Ora, il problema è che qualcuno teme la creazione del precedente, e che una crepa si apra. Ragion per cui quando Benedetto XVI scrive in un libro quel che è stato anticipato ieri da Le Figaro, in tanti si è pronti a parlare di una sorta di dicotomia rispetto al successore.
La frase agostiniana "Non posso restare in silenzio" suona troppo bene per non essere piegata allo scopo. Stamane il sito ultraconservatore Lifesite ci apre l'homepage con gran risalto. Tanto più che a giorni, settimane ma non più di qualche mese lo stesso Bergoglio tirerà le somme degli esiti del Sinodo amazzonico, e farà sapere la sua. E sarà parola di Papa. Forse anche per questo, oltre che per una lettura lontana dalle tifoserie dei documenti e delle riflessioni di Ratzinger, non si stupirà chi tende a vedere fin da adesso non separazione, ma continuità tra un pontefice che parla di casi estremi ed il suo predecessore che difende il principio generale.
E che insieme si sono guardati la finale del Campionato del Mondo di Brasile, il principale dei Paesi amazzonici, con davanti una pizza. Sia chiaro: quest'ultimo episodio è pura fiction: lo si trova solo nel film "I due Papi", di Fernando Meirelles, e prodotto dall'immancabile Netflix. Ma si badi bene che oltre Porta Sant'Anna la produzione pare non sia dispiaciuta, se anche l'agenzia cattolica Sir, in fondo in fondo, a dicembre la consigliava come film di Natale.