“Ricostruire il ponte di Genova in otto mesi è impossibile. E per di più non avrebbe davvero alcun senso”. Ian Firth boccia senza equivoci l’ìpotesi, circolata in queste ore, secondo cui Autostrade per l’Italia avrebbe intenzione di ricostruire l’ex ponte Morandi in 180 giorni. “Impossibile e insensato” dice Ian Firth dalla sua casa di Londra.
Il professore a 62 anni è una delle massime autorità mondiali in fatto ponti: insegna in alcune delle più prestigiose università britanniche, ha guidato le principali istituzioni di ingegneria civile del suo paese, ma soprattutto sono 38 anni che, prima con lo studio Flint & Neil e ora a COWI, progetta e costruisce ponti in tutto il mondo, dall’Australia alla Cina, da Hong Kong a Bangalore.
Il suo esordio nel 1990 fu nella progettazione e supervisione del rafforzarmento di un importante viadotto che collega l’Inghilterra e il Galles, realizzato nel 1966, un anno prima del Morandi, e lungo circa quanto il ponte crollato a Genova, un chilometro e duecento metri. L’ultimo, qualche mese fa, un piccolo ponte per pedoni e biciclette, sopra il canale Grand Union, a Milton Keynes, una cittadina a nord di Londra. Ma fra i suoi progetti c’è anche il Ponte sullo Stretto di Messina che ancora spera di vedere un giorno realizzato (“is waiting to get started, one day, maybe…”).
La sua passione adesso, che ha al suo attivo oltre cento progetti (“non tutti realizzati purtroppo”), è nella costruzione di ponti pedonali in aree rurali poverissime, lì dove un piccolo ponte può davvero cambiare la qualità della vita di una comunità (lo fa con la onlus Bridges to Prosperity).
Insomma se nel mondo esiste un mago dei ponti, quel mago è Ian Firth.
Qualche mese fa l’ho ascoltato a Vancouver, sul palco del TED Global, uno degli appuntamenti più prestigiosi per ascoltare “le nuove idee che cambiano il mondo”. E Firth si è presentato dicendo subito, senza neanche buongiorno o buonasera, questa frase: “Il mondo ha bisogno di ponti”. Avete mai immaginato un mondo senza ponti?, ci ha incalzato; avete idea di quale sarebbe il nostro livello di civiltà se non ci fossero stati i ponti? E poi ha detto: “Quando i ponti crollano, o vengono distrutti in una guerra, le comunità crollano, le persone soffrono”. Sembra di vedere quello che sta capitando a Genova.
E così quando il 14 agosto, poco prima delle 12, il viadotto sul Polcevera a Genova è crollato durante un temporale, i giornalisti di tutto il mondo, dalla BBC alla CNN, si sono rivolti a Ian Firth per saperne di più. Parlando con il Guardian, il professore è stato cauto nel trarre conclusioni, molto più di quanto stessimo facendo in Italia: “Visto che questo ponte in calcestruzzo rinforzato e precompresso è stato in piedi per oltre 50 anni, è possibile che la corrosione degli stralli o dei rinforzi, abbia contribuito al crollo”, ha detto, “ma non va trascurato il fatto che ci fossero dei lavori in corso che possono avere giocato un ruolo”; senza tacere del fatto che “il progetto di Riccardo Morandi, è molto particolare”. Perché particolare? Perché si tratta di una struttura di oltre un chilometro supportata da due grandi torri a forma di A con dei tiranti ricoperti di calcestruzzo, ha detto, ecco perché. Da svariati decenni i ponti non si fanno più così.
La questione tecnologica, Firth l’ha spiegata meglio parlando con un giornalista del Telegraph: il Ponte Morandi, ha ribadito, era fatto di cemento precompresso, ovvero pressato prima di essere messo in posa, una tecnica che era considerata innovativa negli anni ‘50, “grazie alla quale sono stati fatti alcuni edifici e per fortuna non moltissimi ponti in giro per il mondo”. Il problema è che quando vennero fatti nessuno sapeva quanto sarebbero durati, “non avevamo elementi per dire come questo materiale si sarebbe comportato nel tempo”. Adesso i ponti si fanno con un procedimento molto diverso, che li rende molto più durevoli nel tempo; infatti “nel frattempo si è scoperto che il calcestruzzo precompresso, che ha al suo interno l’acciaio, non è in grado di prevenire l’ossidazione e la corrosione del metallo”.
Sempre con il Telegraph, il professor Firth ci ha però tenuto a fare una distinzione netta. Da una parte ci stanno gli ingegneri italiani: “Sono tra i migliori del mondo. I ponti, tutti i ponti ma in particolare quelli costruiti negli anni ‘60, hanno bisogno di manutenzione e nessuno può puntare il dito contro gli ingegneri italiani se non è stata fatta a dovere”. Dall’altra ci sta la società Autostrade per l’Italia: “E’ il concessionario che ha in gestione il ponte il responsabile per la qualità della struttura e per il monitoraggio del degrado che ha subito nel corso degli anni. Agli ingegneri, è vero, spetta la valutazione tecnica, ma è il concessionario che ha la responsabilità per quello che è accaduto”.
Parlando con la BBC, nelle stesse ore, il professor Firth ha chiarito meglio questo punto: “Un ponte importante come questo richiede ispezioni regolari e manutenzione da parte di tecnici qualificati. E’ sempre triste quando un ponte crolla, e spesso la causa è in una manutenzione mal pianificata o mal realizzata”. Anche perché, ha concluso il professore, nel caso del ponte di Genova non c’era solo un problema di progettazione e di tecniche superate, ma anche di traffico di veicoli che è infinitamente superiore a quello che era stato previsto mezzo secolo fa: “Il crollo può sicuramente essere collegato anche alle conseguenze di un aumento costante del traffico di mezzi pesanti. Quello di Genova era un ponte maltrattato da questo punto di vista, non c’è alcun dubbio”. Il riferimento è ai 25 milioni di veicoli che la società Autostrade sostiene che ci passassero ogni anno (avete presente quanti sono 25 milioni di veicoli all’anno? Sono quasi 70 mila veicoli al giorno).
Infine parlando con una rivista di settore, World Architecture News (WAN), il professore ha aggiunto un ultimo dettaglio interessante: “Forse i tiranti in acciaio si sono corrosi ma, anche se fosse, nessuno avrebbe potuto dirlo con certezza visto che sono ricoperti di calcestruzzo”. Ma poi ha concluso con prudenza: “E’ troppo presto per dire quali sono le cause”. Cautela. Prudenza. Gli ingegneri sono così. Vogliono i dati per esprimersi.
Sul futuro il professore ha invece un punto di vista molto netto. I dati in questo caso ci sono, sono quelli che dicono quanto tempo ci vuole davvero per rifare un ponte di oltre un chilometro. Non puoi sparare una data a caso. “In otto mesi non si rifà un ponte di quella lunghezza e complessità, sopra le case, sopra un torrente, sopra una ferrovia. Quanto tempo ci vuole? Ci vogliono dai due ai tre anni. Ma soprattutto non ha alcun senso rifare, com’era, il Ponte di Riccardo Morandi che, ripeto, era innovativo negli anni ‘60, ma sappiamo che ha sempre avuto problemi dopo e che è stato progettato secondo una tecnica, il calcestruzzo armato precompresso, oggi completamente superata”.
Ma non è solo una questione tecnica a far dire al professore che questa tragedia può trasformarsi in una grande opportunità per Genova e per l’Italia: “Quando venne progettato il ponte Morandi eravate all’inizio del boom economico e non si aveva idea di quanto sarebbe cresciuto il traffico di veicoli. Oggi lo sappiamo. Lì ci passano 25 milioni di veicoli l’anno. Troppi per quella struttura, per quel numero di carreggiate. E sappiamo anche che i progetti alternativi di viabilità (la Gronda, ndr) hanno riscontrato una forte opposizione politica e comunque richiedono un decennio per essere portati a termine...”. E quindi? “E quindi per effetto di questo tragico crollo, l’Italia ha l’opportunità di fare un ponte non solo tecnicamente evoluto, non solo in grado di durare più a lungo, ma soprattutto più grande, con più corsie e quindi con la possibilità di far transitare molti più veicoli e risolvere un problema annoso della città di Genova”. Per far questo, dice Firth, “bisogna far presto ma senza avere fretta, sono necessari uno studio fatto bene ed un progetto. Occorre individuare il modo più economico, sicuro e veloce per fare un salto in avanti non indietro nel tempo”.
Ci sono tre modi per fare un ponte che ci porti nel futuro, sostiene il professore: con dei tiranti, con delle travi o con degli archi. (per dire, il più lungo ponte ad archi, che in realtà è un ponte a mezzo arco, “half through arch bridge”, è il Chaotianmen, una struttura di acciaio e cemento lunga un chilometro e settecento metri inaugurata nel 2009 in Cina).
Quanto può costare il nuovo ponte di Genova? Su questo il professore glissa. Dice che in Italia è impossibile dirlo prima, che dipende da tanti fattori, che a volte alcune opere pubbliche sono partite con un prezzo e sono finite alle stelle. Sembra ben informato, si vede che l’esperienza del progetto del ponte sullo Stretto di Messina ha lasciato qualche tossina.
Ma la questione più spinosa è quella dei tempi e il professore lo sa: quel ponte era una arteria, non solo stradale, della città: ci passava la vita di moltissimi genovesi e non solo. E adesso? “E questo il primo problema da risolvere. Ma va fatto sapendo che tra trenta mesi la città potrà rinascere davvero. Trovate una soluzione temporanea e poi fate un salto in avanti di dieci anni”.
In conclusione, in una email in cui mi ha allegato alcune foto dei ponti migliori del mondo, mi ha ribadito quello che vorrebbe fosse il cuore del suo messaggio: “Rifare il ponte di Genova è una sfida molto affascinante e sono sicuro che i migliori ingegneri e architetti del mondo vorranno partecipare. Anche io certo. Mi aspetto che facciate una gara e che i candidati possano presentare progetti con soluzioni diverse. Ma la cosa che sicuramente non farei se fossi in voi, è rifare il ponte com’era. Il nuovo ponte di Genova dovrà essere sicuro, questo è certo; dovrà durare più a lungo del precedente, questo ormai è possibile; e dovrà essere, non dimenticatelo mai, elegante”.
Questo riferimento all’eleganza può sembrare fuori luogo dopo una tragedia come quella del 14 agosto 2018, ma per Ian Firth è invece fondamentale. Non a caso a Vancouver il cuore del suo ragionamento era stato che i ponti sono utili, fanno crescere una comunità, sostengono l’economia, abbattono barriere fra persone diverse. Eccetera. Ma non va trascurato il fatto che staranno lì per un secolo. E per questa ragione devono essere belli: “Un giorno nessuno si ricorderà dei costi di un’opera, ma tutti potranno dire se un ponte è brutto o no. Un ponte ci racconta, racconta come siamo. E se costruiamo qualcosa di mediocre, racconterà la nostra mediocrità. E’ come fare del vandalismo su larga scala. Qualcosa di inaccettabile. Al contrario abbiamo l’opportunità di salvare vite e far crescere una comunità costruendo qualcosa di durevole, intelligente ed elegante”.