Ferro e cemento, cemento e ferro: nessun materiale combinato può rappresentare meglio l’Italia (la sua voglia di affermazione e di crescita, forse anche una certa sbrigatività nel trovare le soluzioni) del secondo dopoguerra. Giovane ed entusiasta, quell’Italia del boom economico trovò proprio nell’unione di ferro e cemento quello che i Romani avevano trovato nel travertino: ancor più di una materia prima, un logo. Un marchio, una firma. Una panacea.
Uno dei grandi profeti di questo materiale quasi miracoloso fu Riccardo Morandi, il cui nome è legato al viadotto venuto giù a Genova. La città i cui famosi svincoli autostradali si sono visti dedicare delle canzoni, e non sempre in tono entusiasta.
Blocchi ben pressati
Ad essere esatti, Morandi esaltò nel corso di una vita dedicata all’ingegneristica e all’architettura il cemento precompresso, vale a dire quello sottoposto – ad aumentarne la tenuta – a compressione preventiva. In altre parole: trasformato in blocco con la sua anima di acciaio ben protetta all’interno, e pronto per essere montato su strutture avveniristiche la cui semplicità di linee e di forme faceva pensare ad un genio bambino cui fosse messo a disposizione, per la sua e l’altrui soddisfazione, un immenso Meccano.
Non cedette mai, Morandi, nella sua lunga carriera alle facili lusinghe del cemento precompresso piegato a scopi commerciali. Usarlo, volgarizzandolo, per la costruzione di orribili villette grigie sulle spiagge italiane e cosa che lasciò ai suoi imitatori, più pronti magari di lui a fare cassa a buon mercato. Lui si riservò, nel campo dell’architettura civile, il gusto di progettare luoghi di aggregazione nelle semiperiferie e periferie romane, quelle cresciute male proprio a causa dell’eccesso di cemento nella sua versione palazzinara.
La sua vera passione
Curò, nella sola Roma, cinema e teatri con la stessa cura con cui in Calabria, agli inizi della carriera, aveva plasmato quella specie di Das di sua invenzione a rimettere in piedi le chiese ancora diroccate per via del grande terremoto del 1908. Sorsero così, nella Capitale, l’Augustus, il Giulio Cesare, il Maestoso (quest’ultimo chiuso all’inizio del 2018: vittima della scarsa manutenzione e di un impianto di climatizzazione mai istallato), con la stessa attenzione con cui la città industriale di Colleferro, pochi anni prima, era stata edificata alla maggior gloria di un regime che Morandi, personalmente, detestava.
Ma la sua vera passione erano i ponti ed i viadotti: lineari per necessità progettuali e gusto personale, fatti di complesse forme geometriche strallate in cui andavano intersecandosi, in un gioco di radianze che solo un occhio esperto poteva seguire, travature e basi d’appoggio a mensola il cui unico scopo sembrava essere il voler far dimenticare le strutture voltate o trilitiche del passato. Ponti antichi pensati con antichi criteri, quelli. Il Novecento, secolo della rinascita dopo l’eclissi, aveva bisogno di nuove linearità.
Dal Fiume Tempestoso alla Laguna di Maracaibo, fino alla Magliana
I ponti di Morandi sono così sparsi in mezzo mondo. Il più famoso era in Venezuela, e correva razionale e imperturbabile per quasi nove chilometri, da un capo all’altro della Laguna di Maracaibo. Uno dei dieci ponti più lunghi del mondo. A metà degli anni ’60 una petroliera urtò un pilone, mandandone una gran parte in fondo all’acqua. L’altro era stato realizzato in Libia, sullo Wuadi al-Kuff, ed ha avuto un destino migliore, come l’altro realizzato a 120 metri d’altezza sullo Storms River in Sudafrica.
Ma è in Italia che si trova la maggior parte dei ponti e dei viadotti realizzati da Morandi, oltre al viadotto dell’autostrada di Genova. Nella sola Roma ve ne sono almeno un paio. Eccoli:
Viadotto dell’Olimpica su Corso Francia;
Ponte sull’ansa del Tevere alla Magliana;
Viadotto Fausto Bisantis a Catanzaro;
Ponte Giuseppe Capograssi a Sulmona;
Viadotti per l’autostrada dei Trafori a Stresa;
Passerella sul Lago di Vagli, Lucca;
Ponte di San Nicola a Benevento;
Ponte “Giovanni XXIII” sul Lago di Paola a Sabaudia (Latina).