Quando Cezara è arrivata ad Acate, nel ragusano, sognava una nuova vita ed un lavoro dignitoso che le permettesse di vivere. Era questa la speranza di cambiamento che le avevano assicurato e, per cui, aveva programmato il suo arrivo in Italia.
Cezara – nome di fantasia – è una donna rumena che ci fa comprendere il drammatico cliché che si basa su forme di convivenza per bisogno, dove non c’è amore, ma la necessità di una casa con il tetto e con il riscaldamento. Non ci sono stupri in questi rapporti, ma la donna è un oggetto di proprietà. E l’uomo che la tiene in “ostaggio” è un caporale.
Un’azienda agricola su quattro in Italia ricorre all’intermediazione del caporale per reclutare la forza lavoro: sono trentamila su tutto il territorio nazionale. Sono questi i dati, drammatici, contenuti nel quarto “Rapporto Agromafie e Caporalato” a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil.
“A ricorrere al caporale sono il 25 per cento del totale delle aziende del territorio nazionale”, spiega la Flai Cgil. “Il 60 per cento di tali aziende ingaggiano i caporali capi-squadra, che si differenziano per modalità di natura economica e per livello di condotta criminale dai caporali mafiosi e caporali collusi con organizzazioni criminali”.
Basta snocciolare qualche altro dato per comprendere la pervasività del fenomeno.
Tra 400 e 430 mila sono i lavoratori agricoli esposti al rischio di un lavoro irregolare e sotto caporale. Tra questi 132 mila sono in “condizione di vulnerabilità sociale”. Secondo i numeri più di 300 mila agricoli, ovvero il 30% del totale, lavorano meno di cinquanta giorni l'anno, e “presumibilmente in questo bacino è presente molto lavoro irregolare o grigio”. Il tasso di irregolarità nei rapporti di lavoro in agricoltura è pari a quasi il quaranta per cento.
Le storie raccontate nel rapporto sono “indecenti” e ci mostrano un’Italia con il male “caporale” diffuso, visto che oltre a quella di Cezara, in Sicilia, la situazione non cambia in altre sei regioni, ovvero l’Emilia Romagna, la Toscana, la Campania, la Puglia e la Basilicata.
“In ogni regione - spiega la Flai Cgil - sono stati studiati territori particolari, in quanto quelli in cui si registrano forme di lavoro indecenti e al limite dello sfruttamento para-schiavistico”.
Il litemotiv è sempre lo stesso: lavoratori privi di qualsiasi tutela, nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge.
La paga, infatti, varia tra i 20 e i 30 euro al giorno e un compenso di al massimo 4 euro per riempire un cassone da 375 kg. Un orario di lavoro che va dalle otto alle dodici ore al giorno e un salario inferiore a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro e di quelli provinciali di ben il 50 per cento.
Le donne colpite da caporalato percepiscono un salario medio inferiore del 20 per cento rispetto ai colleghi maschi. Nei casi più gravi scoperti, alcuni lavoratori migranti sono stati pagati perfino un euro l'ora.
Non manca la parte relativa all’infiltrazione delle mafie straniere nel settore, in particolare quella bulgara.
La diffusione, si legge nel rapporto, permette alla mafia “di operare simultaneamente in più parti del territorio nazionale e dunque di ingaggiare manodopera, proporla al mercato della domanda/offerta illegale, stabilire/negoziare interessi con imprenditori irresponsabili/disonesti, ricavarne ricchezza”.
La criminalità organizzata agisce con metodi “di carattere antitetico a quelle che le organizzazioni sindacali mettono in essere per difendere i lavoratori”.
“I sodalizi criminali che gestiscono segmenti di offerta di manodopera con regole e comportamenti impositivi e discriminanti possono configurarsi come delle micro-organizzazioni parallele a quelle sindacali”.
Le mafie sono un vero e proprio “sindacato delinquenziale”. È per questa ragione che – secondo le conclusioni del Rapporto – diviene “riduttivo centrare l’azione di contrasto soltanto sugli aspetti criminologici – e dunque mediante il diritto penale – poiché questi sono soltanto alcuni dei fattori che concorrono all’assoggettamento di questi contingenti di lavoratori stranieri”.
Gli altri fattori, quelli più estesi e significativi, riguardano la sfera dei diritti della persona, i diritti dei lavoratori ed i diritti sindacali. C’è un’unica ricetta finale che può essere efficace: lo Stato deve puntare alle strategie di inclusione sociale.