Strano il nostro Paese. Sui più grandi fatti che hanno riguardato la storia, drammatica, degli anni bui siamo tutti a chiedere “verità e Giustizia”, ma quando qualcuno lotta (anche e soprattutto a rischio della propria vita) per questa verità, ecco che le polemiche colpiscono quel “qualcuno”, ponendo in secondo piano quella “ricerca”. È ciò che puntualmente si verifica ed è ciò che, anche questa volta, con la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta sui depistaggi relativi alla strage di Via d’Amelio, sta accadendo.
Neanche a dirlo, obbiettivo di queste polemiche è, ancora una volta, Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, a Caltanissetta dal 1992 al 1999, e colui che ha, in un’audizione fiume in Commissione Antimafia, riferito “circostanze utili – come lo stesso riferisce all’Agi - per comprendere ciò che è avvenuto e chi, oltre ai mafiosi già condannati, potrebbe avere avuto un ruolo nella ideazione e organizzazione della strage”. Peccato che quelle circostanze interessino a pochi, mentre “sparare” sentenze inappellabili sull’attività di uno dei più coraggiosi magistrati oggi in servizio è “sport nazionale”. Lo stesso Magistrato, Nino Di Matteo, più volte attaccato, con parole che trasbordano abbondantemente il diritto di critica, per il processo (cosiddetto) “Trattativa”. E che poi, la sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo, abbia dato ragione alla tesi dei Pm Di Matteo, Tartaglia, Teresi e Del Bene interessa a pochi.
Altro giro, altra corsa. L’allora giovane Pm di Caltanissetta, Nino Di Matteo, fu fra i primi a comprendere le falsità del “pupo vestito” Scarantino. Si occupò, questa è la incontrovertibile verità, del processo Borsellino solo due anni dopo il depistaggio e per chi era accusato dal falso pentito Scarantino, chiese le assoluzioni. Tutto riscontrabile, tutto agli atti. Anzi, Di Matteo istruì, fin dalla fase delle indagini, il “Borsellino ter”, ottenendo ben ventiquattro condanne per il reato di strage. E nessuno di queste è stata messa in discussione. Uno chef di rango si valuta sulle pietanze che cucina, non su quelle che hanno cucinato altri.
In questi anni ho visto, troppo spesso, utilizzare a proprio uso e consumo le dichiarazioni dei familiari delle vittime, ad iniziare da quelle dei figli del dottor Paolo Borsellino. Ogni qualvolta parla qualcuno di loro, le parole pronunziate, invece di farci riflettere, vengono decontestualizzate ed usate come una mannaia (o, ancor peggio, strumento politico). Così mi domando, la verità storica di ciò che è accaduto dopo la strage di Capaci, in quei 57 giorni che separarono la morte di Giovanni Falcone da quella di Paolo Borsellino, questo Paese è in grado di sostenerla davvero?
Se sì, si indaghi per la verità. Ed invece di colpire chi ha lavorato per ricercarla, sarebbe buona cosa cercare di comprendere chi, quella verità, non l’ha mai voluta. E quei nomi ci sono e li ha fatti proprio Di Matteo nell’audizione in Commissione Antimafia. Ma la verità interessa a qualcuno?