Tempi duri per le organizzazioni non governative, sotto attacco per l'emergenza migranti e per il rinomato codice di condotta che alcune non hanno voluto sottoscrivere. Eppure le Ong sono associazioni di volontari che intervengono lì dove gli Stati e i governi non arrivano. Risolvono problemi, salvano vite, migliorano in tanti casi la qualità della vita dei più deboli. Fino a qualche anno fa, dicevi Ong e stavi dalla parte del giusto. Oggi non è più sempre così. Complice, anche, la polemica politica che non solo in Italia spacca la società e divide i governi. Chi sta con le Ong sta con il soccorso a tutti i costi a chi è in pericolo di vita e, come sappiamo bene anche noi italiani, la solidarietà senza se e senza ma non va per la maggiore in questi tempi. Ci sono poi le Ong che trattano con gli scafisti (cosa c'è nelle carte dell'inchiesta sulla nave Ong sequestrata a Lampedusa) e allora si capisce il motivo per cui in questi giorni su molti media le Ong siano diventate delle "organizzazioni non gradite", persino pericolose, sostengono alcuni.
"Colpire nel mucchio"
"C’è chi ha sbagliato - scrive il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, in un fondo pubblicato oggi - ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai — secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa — per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi. Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma”.
Aggiunge il direttore di Repubblica: " “Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare – conclude il direttore di Repubblica - di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni. Lo dobbiamo fare ogni giorno e per questo vi raccontiamo cosa sono davvero le Ong e chi sono le donne e gli uomini che ci lavorano”.
Oggi Repubblica ha dedicato due pagine dell'edizione cartacea all'esercito di volontari che ogni giorno in Italia si caricano sulle spalle, senza alcun fine di lucro, storie, problemi, vite più o meno spezzate e che nessuno ha il diritto di mettere nello stesso fascio dei pochissimi che sbagliano e che - dicono le carte di alcuni magistrati - della solidarietà e della missione umanitaria fanno invece un business.
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Un esercito di 6 milioni di volontari
Sono oltre sei milioni gli italiani che quotidianamente si dedicano al volontariato. “Uomini – si legge su Repubblica - che donano tempo, competenze, denaro, solidarietà e accoglienza. Nel silenzio e nella discrezione. Sulle navi di Ong come ‘Save the Children’ o ‘Medici senza frontiere’ e poi sui pontili degli sbarchi, nei centri di accoglienza, ma anche e soprattutto tra gli anziani soli, tra le vecchie e nuove povertà di un’Italia che non ce la fa, tra i disabili senza welfare, tra i matti che nessuno cura, tra chi ha fame e si vergogna di ammetterlo. Perché tra i 400mila enti che in Italia si dichiarano non profit, ossia associazioni senza fini di lucro, ci sono colossi della solidarietà come “Emergency” o la “Comunità di Sant’Egidio”, ma anche realtà microscopiche, quasi condominiali, che comunque alleviano le fatiche e le sofferenze di un vicino di casa, di un parente, di chi è in difficoltà, o magari di un bambino straniero che non sa fare i compiti”. “Al di là dei dati delle grandi Ong (dall’Unicef a Emergency, da Msf a Cuamm, da Action Aid al Cesvi) i cui introiti sono cresciuti nel 2016 del 10% in più del 2015, gli italiani non soltanto sostengono il non profit, ma uno su due afferma, così dice l’Istat, ‘il volontariato fa stare meglio con se stessi’”. Noi aggiungiamo Oxfam.
La Caritas Ambrosiana: una macchina per la solidarietà
A Milano l’ex teatro parrocchiale di Greco, nella periferia est della città, è stato trasformato dal 2015 in un ‘Refettorio’, di fianco alla chiesa. Lì la signora Rosetta , vedova di 75 anni, ogni giorno trova altri cinquanta pensionati. Tutti soli, come lei: qualcuno con cui mangiare e con cui scambiare i ricordi. Scrive Repubblica: “Non sa niente, l’anziana donna, del progetto solidale fatto dall’ente assistenziale della chiesa milanese ai tempi di Expo, in collaborazione con lo chef Massimo Bottura e con alcuni grandi nomi dell’arte e del design, che hanno donato le loro opere per rendere la mensa dei poveri “un luogo ‘bello’, dove nutrire l’anima oltre che lo stomaco”, lo spiega il presidente Luciano Gualzetti. Nel 2016 sono state 24.380 le cene servite ai poveri del quartiere Greco e 42 le tonnellate di “eccedenze alimentari” trasformate in piatti di alta cucina. Ma il Refettorio ambrosiano è solo l’ultimo ingranaggio, il più sofisticato, di un complesso meccanismo di aiuto alla città del bisogno, una macchina che arruola migliaia di volontari ogni anno e che collabora gratuitamente anche con il Comune per gestire le emergenze sociali. Dai senza fissa dimora alle prostitute, dai profughi ai minori che devono essere allontanati dai genitori, dagli anziani ai disabili, non c’è categoria del “disagio sociale” che non sia coperto da un servizio della Caritas”.
L'impegno di ‘Save the Children’ per i bambini dimenticati
“Un giorno siamo arrivati in un villaggio sperduto della Somaliland”. Racconta a Repubblica Filippo Ungaro, il direttore della comunicazione di ‘Save the Children’ Italia. “C’erano sei casi di bambini gravemente malnutriti. Eravamo pronti a portarli via ma uno dei padri si è rifiutato di darci suo figlio. Avrebbe dovuto accompagnarlo, ma non poteva lasciare i pochi animali che gli erano rimasti. Siamo riusciti a convincere le altre quattro famiglie garantendo loro le spese a nostro carico. La permanenza all’ospedale di solito può durare più di un mese, e la famiglia, che accompagna sempre i figli, non sa come sostentarsi durante il ricovero. Non avevo mai visto una cosa del genere. I bimbi erano scheletrici. L’ambulanza che normalmente utilizzavamo non era disponibile e ci siamo stretti tutti nelle nostre jeep, noi, i bimbi e le loro famiglie. C’era un bambino in particolare che mi ha colpito. Ha continuato a piangere fino al piccolo ospedale di Burao, la seconda città più grande del Paese. Non era un pianto vero, ma un lamento costante. Ne ho chiesto la ragione alla madre. La sorellina, con cui giocava sempre, era morta da poco nello stesso ospedale, sempre per malnutrizione. Non gli era stato detto nulla, ma lui aveva riconosciuto il luogo che gliel’aveva portata via. E continuava a ripetere “mamma, portami a casa”. Fortunatamente i bambini si sono ripresi. Migliorano di giorno in giorno. Se fossimo arrivati anche solo un giorno dopo sarebbero morti. Il loro futuro rimane comunque incerto. La malnutrizione è il frutto di una serie di elementi: la povertà, le guerre e le calamità naturali. Il Somaliland ce li ha tutti e tre”.