Articolo aggiornato il 16/04/2019
Nei giorni in cui si torna a parlare di tubercolosi, il museo dei sanatori, a Sondalo apre una finestra su una malattia che nel secolo scorso era endemica e costringeva migliaia di pazienti a lunghe degenze in luoghi come questo, ancora attivo come ospedale, con i suoi lunghi padiglioni costruiti sui pendii dell’alta Valtellina ed esposti a sud.
Il museo, aperto nei mesi estivi e su appuntamento, racconta la storia di un luogo speciale, dove per decenni tante persone sono guarite dalla tubercolosi grazie all’aria alpina.
Il complesso di Sondalo, il “Villaggio Sanatoriale Morelli” è ancora adesso impressionante per dimensioni e architettura: una decina di grandi palazzi costruiti sui ripidi pendii boscosi a mille metri di altitudine nello stile razionalista in voga negli anni ‘30, con terrazze lunghissime programmate per far stendere al sole il maggior numero di malati. Ci sono poi diversi edifici di servizio, collegati con tunnel e teleferiche, e separati da giardini che un tempo erano perfettamente curati, e oggi sono in abbandono.
Negli anni del dopoguerra ospitava centinaia di pazienti nei suoi padiglioni, anche se la storia più interessante raccontata dal museo non riguarda la sua funzione terapeutica, quanto quella di nascondiglio di opere d’arte durante la seconda guerra mondiale, prima ancora che cominciasse a funzionare da sanatorio.
“Sarebbe una bella trama di film” racconta all’Agi la fondatrice e direttrice del museo, la professoressa e “geofilosofa” Luisa Bonesio. “C’erano i bombardamenti angloamericani su Milano, che avrebbero distrutto Brera e tante altre cose. Dopo uno scambio di lettere fra il sovrintendente di Brera, lo storico dell’arte Guglielmo Pacchioni, e il direttore tecnico del sanatorio, fu organizzato il trasferimento segreto di alcune importanti opere d’arte di pittori come il Tintoretto, il Carpaccio, Gentile Bellini, ma anche di beni etnografici, da Brera ed altri musei milanesi, come quello del Castello visconteo, e lombardi, come le pinacoteche di Brescia e Bergamo”.
E se la Valtellina è stata per alcuni decenni una terra di emigrazione, soprattutto verso l’Australia, il solo comune che in quel periodo di povertà ha attratto nuovi abitanti, raddoppiandone il numero in meno di 20 anni è appunto Sondalo. Per la sua posizione, era stato individuato nel Ventennio come il luogo ideale per la cura della Tbc. L’opera venne pianificata e nel giro di qualche anno fu completato, nel 1939, il “villaggio sanatoriale Morelli".
L'inaugurazione della struttura fu però ritardata dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Prima ancora di aprire ai malati, non servì solo da nascondiglio per le opere d’arte ma anche da presidio ospedaliero per i tedeschi in ritirata.
Solo dopo la fine della guerra, una volta restituiti sani e salvi i quadri così scampati alle razzie naziste e alle bombe alleate, il villaggio Morelli ha finalmente cominciato a svolgere la funzione per la quale era nato, accogliendo negli anni migliaia di malati di tubercolosi, oltre a centinaia fra medici, infermiere, cuochi, operai e impiegati, che in moltissimi casi si sono trasferiti definitivamente in Valtellina provenendo da tutta Italia.
Una volta debellata la tubercolosi, grazie alla scoperta di un antibiotico mirato e al miglioramento generale delle condizioni di vita degli italiani, il Villaggio ha perso di importanza a partire dagli anni ’70 e ora solo pochi padiglioni sono ancora utilizzati come ospedale (con un buon reparto di pneumologia, unico lascito della precedente tradizione).
Luisa Bonesio, originaria di Sondalo ma vissuta altrove per decenni e a lungo docente all'Università di Pavia, ha avuto l’idea di aprire, nell'edificio rotondo che un tempo serviva da locale “accettazione", il Museo dei Sanatori. Vi sono esposti oggetti e documenti sul Villaggio Morelli, e rende molto bene l'intreccio fra storia dell'architettura, storia della medicina
Com'è nata l'idea del museo?
Tutto è cominciato dieci anni fa, dalla mia ossessione di valorizzare questi complessi sanatoriali incompresi: ho trovato una buona collaborazione con il Comune, e ho cominciato a fare conferenze nella provincia. Già in quell’anno abbiamo avviato un programma di visite guidate da esperti. Penso che per capirlo ci vogliano gli strumenti che i vari architetti, storici dell’arte, botanici, studiosi di paesaggio possono fornire facendo percorrere percorsi diversi all’interno del Villaggio Morelli.
Il successo di queste visite ha portato poi all’idea del museo, con il restauro dell’edificio che era la portineria centrale e accettazione. Il museo è stato inaugurato nel 2015 ma l’anno scorso abbiamo aperto la seconda parte.
Come è cambiato il comune di Sondalo con la costruzione del Sanatorio?
Non solo gli abitanti sono circa raddoppiati in 40 anni (da circa 3 mila nel 1931 a quasi 6 mila nel 1971, e ora sono 4 mila, ndr), ma il paese è cambiato dal punto di vista dell’insediamento: era una manciata di case e man mano si è ingrandito.
Il cambiamento ha riguardato soprattutto la composizione sociale e culturale, perché sono arrivate persone da varie parti d’Italia sia come ricoverandi, che venivano prevalentemente dal sud ma anche dalle aree industriali naturalmente sia come immigrazione di forza lavoro: tutti gli operai che hanno costruito il villaggio, i medici, gli infermieri ma anche la manodopera come cuochi, barellieri, impiegati.
Questo centro medico altamente qualificato era a livelli europei e sicuramente è stato un’attrazione per una immigrazione che ha cambiato anche la faccia del paese. Abbiamo trovato di recente il piano regolatore che fu steso nel 1958 dall’ingegnere Luigi Ferrari, il primo direttore tecnico del villaggio, poi tornato a Milano ebbe l’incarico del piano regolatore di Sondalo. È molto interessante la relazione iniziale dove spiega il cambiamento in termini demografici ma soprattutto di esigenze della popolazione: c’è stata una modernizzazione molto repentina di un paese che era rimasto fermo in modo atavico e che invece è diventato non so quanto consapevolmente un centro di modernizzazione.
Può raccontare che cos’è successo con i quadri di Brera durante la Guerra?
Sarebbe una bella trama di film. C’erano i bombardamenti angloamericani su Milano, che avrebbero distrutto Brera e tante altre cose. Dopo uno scambio di lettere fra il sovrintendente di Brera, lo storico dell’arte Guglielmo Pacchioni, e il direttore tecnico del sanatorio, Luigi Ferrari, organizzarono il trasferimento di alcuni importante opere d’arte, del Tintoretto, il Carpaccio, Gentile Bellini, ma anche di beni etnografici, da Brera ed altri musei milanesi, come quello del Castello visconteo, e lombardi, come le pinacoteche di Brescia e Bergamo.
Il villaggio era stato appena terminato ma la guerra ne aveva impedito l’apertura. C’era solo una guarnigione medica dell’esercito tedesco che si stava ritirando, poche persone, alcune infermiere, l’ingegner Ferrari e 4 operai per la manutenzione.
Il mistero riguarda il trasporto: un divieto assoluto di transito sulle strade in particolare della Valtellina, tanto che lo stesso direttore Ferrari non poteva spostarsi in macchina e abbiamo trovato un permesso del maggiore tedesco per poter andare a Milano (a 200 km di distanza, ndr) in bicicletta! Dobbiamo immaginarci questo scenario lontano dal fronte di guerra e come dire immobilizzato nel tempo: i quadri e le altre opere giunsero di nascosto, trasportati dentro a filocarri che percorrevano la stessa strada per arrivare alle dighe di Cancano, sopra Bormio.
Dell’operazione erano a conoscenza solo l’ingegner Ferrari e tre operai che realizzarono un nascondiglio segreto in un’intercapedine del settimo padiglione. Noi non abbiamo delle tracce scritte dei tedeschi ma è evidente che in una Valtellina immobilizzata dove non circola niente arriva improvvisamente una sequenza di camion al villaggio, be’ credo sia passato inosservato al maggiore tedesco.
Quindi quello che si può dire, e in parte lo ha ricostruito Cecilia Ghibaudi, che questo abbia fatto finta di non vedere ma perché? Questa è la cosa interessante: perché questo maggiore era in realtà, nella vita normale, prima della guerra, un professore di storia dell’arte italiana che aveva vissuto molto in Italia studiando soprattutto l’arte toscana. Noi non sapremo mai se sapeva effettivamente ma sta di fatto che probabilmente qui c’è stata una collaborazione non dichiarata.
Dopo la guerra, scampato il pericolo che anche i partigiani, nei giorni finali, potessero danni al villaggio e alle opere nascoste (lo stesso Ferrari era un capo partigiano), con il loro inventario minuziosissimo vengono restituite indenni ai rispettivi musei.