A bordo della nave di cui tutti parlano c'è un uomo di cui tutti parlano. Ma la cosa strana è che si tratta di due storie diverse. Diversissime. Che si sono incrociate su un destino, quello di una migrante camerunense di quarant'anni trovata in fin di vita sul relitto di un gommone, e che ora tutti raccontano. La nave è la Open Arms della Ong spagnola Proactiva e l'uomo è un campione di Nba, uno che potrebbe comodamente starsene seduto sulla montagna di milioni di dollari che ha guadagnato come centro dei Memphis Grizzlies e invece salva anime naufraghe tirandole sui battelli di salvataggio con la stessa intenzione con cui centra tiri da tre punti.
Marc Gasol, dieci anni di Nba ai livelli più alti, quasi 20 milioni di dollari di ingaggio all’anno, a bordo della Open Arms è in semplice volontario. Per lui e per il fratello Pau, altra stella del basket spagnolo con carriera luminosa negli Stati Uniti, il volontariato non è una questione estemporanea, riporta il Corriere. La Gasol Foundation finanzia progetti di solidarietà per i bambini più poveri. Un anno fa Marc ha incontrato Oscar Camps, il fondatore di Proactiva Open Arms e quando martedì ha pubblicato un tweet per esprimere "frustrazione e rabbia" per il naufragio in acque libiche cui aveva assistito, la sua stella sui social ha brillato ancor di più.
Frustration, anger, and helplessness. It’s unbelievable how so many vulnerable people are abandoned to their deaths at sea.
— Marc Gasol (@MarcGasol) 17 luglio 2018
Deep admiration for these I call my teammates at this time @openarms_fund pic.twitter.com/TR0KnRsrTE
Gasol stigmatizza le critiche che da più parti, in Italia, vengono mosse alle Ong. "Loro fanno una cosa molto semplice: salvano le vite. Non c’è politica qui, il lavoro che fanno è questo e lo fanno in modo eccezionale. Non chiedono alle persone che colore hanno o da dove vengono, le tirano fuori dai guai, le salvano dalla morte, stop. È una questione di umanità e di solidarietà. Perché parlar male di loro?" dice.
E, a proposito della guardia costiera libica contro cui l'Ong si è scagliata con violenza, dice a Repubblica: "Stiamo parlando di atti disumani, criminali. Queste persone avrebbero dovuto essere salvate. La guardia costiera afferma di aver salvato 158 persone. E se non fossimo arrivati noi, la cosa sarebbe finita lì. Nessuno avrebbe saputo nulla. Ma ci siamo resi conto che lì c'erano dei corpi, che avevano lasciato diverse persone in una situazione impossibile".
Riguardo i colleghi, gli altri campioni dello sport che si impegnano (e non) sul fronte umanitario, Gasol dice che "non è una questione di essere atleti noti o meno noti. Prima di essere uno sportivo — un calciatore, un giocatore di basket — siamo uomini. Ognuno, di fronte a quello che succede può decidere cosa fare. Può scegliere se aiutare gli altri, se stare dalla loro parte".
Per lui, racconta, tutto è cominciato con la foto del piccolo Aylan, il profugo siriano che il mare ha adagiato su una spiaggia turca nel 2015. "Quella fotografia" dice, "ha provocato in me un senso di rabbia e allo stesso tempo mi ha fatto capire che ciascuno di noi deve fare la sua parte perché certe cose non accadano più. Fu allora che conobbi Oscar Camps. Rimasi colpito dalla sua convinzione, da come abbia messo a disposizione di questa causa tutte le sue risorse economiche, logistiche e personali per aiutare queste persone. Ammiro chi fa qualcosa e non aspetta che lo facciano altri".