Nell’era dei social e della globalizzazione digitale, in cui è più facile comunicare anche con chi sta all’altro capo del mondo utilizzando una lingua diversa dalla propria – spesso l’inglese – si rischia di vedere scomparire sempre più tessere del mosaico delle lingue e delle culture che fanno della Terra una torre di Babele.
Ad averlo capito non sono solo gli esperti dell’Organizzazione Onu per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco) ma la stessa Google che, con università, linguisti e altri partner, ha lanciato un ambizioso progetto per mantenere viva la memoria del passato e sensibilizzare la popolazione mondiale sul problema delle lingue in via d’estinzione.
Secondo “Endangered Languages Project”, sono più di 3.000 - su circa 6.000 totali - sparsi in tutto il mondo, gli idiomi “da salvare”: un patrimonio dell’umanità unico e immenso minacciato dai cambiamenti della modernità.
Una volta l’anno, il 21 febbraio, l’Unesco celebra la Giornata internazionale della lingua madre proprio per promuovere le differenze linguistiche di ogni Paese. Per capire dove e come intervenire, l’ente Onu produce un Atlante delle lingue e dei dialetti in pericolo.
L’islandese a rischio estinzione
Oggi a comprendere e parlare l’islandese sono meno di 400 mila persone nel mondo e, a causa della Rete e dell’inglese, sull’isola sempre meno giovani utilizzano la lingua madre per svolgere le attività quotidiane. Così avere la padronanza dell’islandese sta quasi diventando un privilegio. Un idioma che nel corso dei secoli si è trasformato poco a causa dell’isolamento geografico mentre una certa ricchezza economica ha permesso al Paese di rafforzare e salvaguardare alcune sue tradizioni socio-culturali.
I tempi sono cambiati e negli ultimi decenni l’apertura significativa al mondo esterno, dal turismo agli scambi commerciali ha reso l’inglese uno strumento fondamentale nel settore dei servizi mentre programmi tv e Internet hanno allontanato sempre più giovani dalla lingua islandese.
È quello che Eiríkur Rögnvaldsson, professore di linguistica della University of Iceland, chiama “minoritarizzazione digitale”: un processo che si determina quando una lingua viva e parlata nel mondo reale diventa una lingua secondaria nel mondo digitale, con ricadute tangibili.
Così la generazione under 15 fatica a parlare nella propria lingua madre, ma comprende e parla perfettamente l’inglese. Sul lungo termine c’è chi lancia l’allarme per “l’estinzione digitale” dell’islandese così come di altre 21 lingue europee, tra cui il maltese e il lituano, poco presenti sulla rete.
Allarme dell’Onu
Conoscerne l’esistenza potrebbe essere un primo passo per allungare la vita di alcune delle lingue considerate dall’Unesco in “grave pericolo estinzione”, diverse centinaia nel mondo sui cinque continenti. In Italia c’è l’arbereshe albania, un dialetto del sud dell’Albania parlato dagli arbareschi o albanesi d’Italia, una comunità tra 100 e 250 mila persone che vivono sparse nell’Italia nel sud e nelle isole, soprattutto a Piana degli Abanesi, nel palermitano.
Rimanendo in Europa c’è il livonian, in Lettonia, ufficialmente parlato da 20 persone, per lo più da anziani in casa, che lo mischiano ad altre lingue. Lo skolt saami, lingua ungrofinnica parlata da circa 300 persone di etnia Skolt nella regione tra il comune di Inari, in Finlandia, e la zona russa di Petsamo. C’è anche lo nganasan, o tavgy, lingua uralica utilizzata da 800 persone nella Russia settentrionale, con precisione nella Penisola di Taimir.
Sul continente americano, tra le lingue in pericolo più citate c’è l’okaganan, repressa durante la colonizzazione britannica, americana e poi canadese, ad oggi utilizzata da sole 150 persone, la maggior parte delle quali vivono in Canada, nella regione della British Colombia. In Brasile, nello stato di Tocatins, l’apinayé è la lingua nativa delle popolazioni locali; fino alla fine degli anni ’70 tutti si esprimevano in apinayé e solo gli uomini adulti usavano il portoghese per gli scambi commerciali. Oggi è ancora conosciuta da non più di 1200 persone.
In Africa l’Sos riguarda centinaia di lingue native, una tra quelle è il birale ongota, in Etiopia, ormai quasi estinta con solo sei parlanti stimati che vivono nel villaggio di Weito River. La sua origine è probabilmente afroasiatica, ma è ancora oggetto di studio per capire meglio e mantenerla in vita.
In Asia c’è, ad esempio, il koro, lingua tibeto-birmana parlata da circa 1.000 persone nel distretto del Kameng orientale, nello stato dell’Arunachal Pradesh, in India. È molto diversa dalle lingue vicine, tra cui l’aka, ceppo dominante nell’area, e a darle vita sarebbe stato un gruppo di schiavi portati in zona.
Nel Pacifico troviamo il guugu-yimidhirr nel Queensland settentrionale, in Australia, utilizzata da 700 persone. Questa lingua ha dato al mondo la parola kangaroo (canguro). Nelle Isole Cook, sull’atollo di Pukapuka, nota per la bellezza delle ragazze, il pukapukan è attualmente parlato da circa 2 mila persone. Non esiste una forma scritta dell’idioma, ma sono in corso dei progetti per tradurre libri importanti in questa lingua nativa di uno dei luoghi più remoti della Terra.