Il pilota di areoplani di Saint-Exupéry racconta di aver dipinto da bambino un boa che digeriva un elefante, e che quell’immagine fu scambiata per quella di un cappello. Affinchè tutti vedessero chiaramente cosa fosse dovette disegnare l’interno del boa.
Ecco a cosa serve l’informazione: a chiarire le vicende poco chiare (e nel nostro Paese, purtroppo, ce ne sono state e ce ne sono troppe), ad informare i cittadini ed a permettere loro di scegliere da che parte stare.
Uso una metafora per celebrare la Giornata Mondiale per la Libertà d’Informazione che quest’anno coincide con l’ennesimo processo per minacce di morte a cui mi accingo a presenziare. E risuonano ancora nelle mie orecchie le parole del sindaco di Noto che, appena poche ore fa e dopo un’inchiesta giornalistica pubblicata sull’Agi per denunciare i guadagni del boss cittadino con la manifestazione organizzata in onore dell’Unesco, si difendeva ricorrendo alla solita frase: “Basta gettare fango sulla città”.
Sì, ogni volta che si fa un’inchiesta giornalistica, per i politici coinvolti – al di là del partito politico – è “fango”. Ma poi siamo tutti pronti a solidarizzare con i colleghi che subiscono minacce, tutti portati a batterci il petto e a inneggiare all’articolo 21 della Costituzione sempre, almeno fino a quando quel giornalista o quella sua inchiesta non toccano il nostro “orticello”, o la nostra formazione politica.
È lì allora che vediamo ammainarsi la bandiera tanto sbandierata della “libera informazione” e cominciare ad alzarsi quella che invece grida al complotto, ai pennivendoli, agli sciacalli, al giornalismo che produce “fake news”, quella sorretta da venti violenti, pericolosissimi, gonfi di editti, parole grosse, insulti e bavagli.
Forse è arrivato il momento che l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci) prenda una posizione precisa e censuri i sindaci che, per difendere il proprio operato, attaccano il lavoro giornalistico e la libertà di stampa.
Perché ogni giorno vediamo parole sporche di sangue, articoli che si trasformano in incubi, inchieste che scottano e che costano carissime a chi le ha realizzate. E ancora attacchi, insulti, delegittimazioni, solitudini, violenze agite o minacciate. Di questi tempi nel nostro Paese cercare di contribuire alla ricerca della verità sembra essere diventata un'impresa ogni giorno più ardua e pericolosa.
Tuttavia se un giornalista dovesse scegliere di smettere di guardarsi attorno per snidarla, se perdesse il suo spirito critico, o il “coraggio” di denunciare, non solo non assolverebbe al proprio dovere nei confronti dell’opinione pubblica ma finirebbe per portarsi sulle spalle la responsabilità e il peso dei dolori, delle sopraffazioni e delle tante ingiustizie che ogni giorno subiscono nell'ombra le migliaia di vittime delle mafie, del malaffare e della corruzione.
Oggi la mia paura non è più (solo) figlia delle condanne a morte della mafia siciliana, ma dal sentire un soffiare di venti tipici di altre latitudini e luoghi, le cui raffiche violente stanno ormai investendo tutti e ciascuno di noi, e impongono a chi scrive di essere ancora più vigile, e di tenere ancor più salda in mano la propria penna.
Ed oggi vorrei dedicare questa Giornata ad Antonio Megalizzi, collega ucciso a Strasburgo in un attentato lo scorso dicembre. Antonio, come Daphne Caruana Galizia o Peppino Impastato, aveva del giornalismo un concetto altissimo.
La libertà è come l’aria, ci accorgiamo che ci viene a mancare quando non c’è più. Svegliamoci, prima che sia troppo tardi.