I rischi di questo attacco continuo al lavoro dei giornalisti
I rischi di questo attacco continuo al lavoro dei giornalisti

"No al festival dell'infamia e della perversione". L’ultimo attacco al giornalismo, alla libertà d’espressione ed all’Articolo 21 della Costituzione arriva prima con uno striscione e poi con un post su Facebook ed è firmato dal gruppo di estrema destra Forza Nuova. L’obiettivo è ancora una volta il collega di “La Repubblica” Paolo Berizzi, da sempre particolarmente attivo sulle colonne del suo giornale nella denuncia sui gruppi neofascisti, il palcoscenico è il Festival del Giornalismo di Perugia, definito dagli esponenti di Forza nuova come un “concentrato di idiozie politicamente corrette, prive di qualsiasi attinenza alla realtà".

È sempre colpa dei giornalisti. È quasi una moda, oramai, scagliarsi contro i cronisti o i reporter.

L’appannaggio iniziale (o la primogenitura della moda, come preferite), fino a qualche tempo fa, spettava ai politici che, a seconda delle occasioni o degli interessi, si scagliavano contro chi dava loro la possibilità di manifestare il proprio pensiero. Eppure oggi a questa “moda” o corrente di pensiero, hanno aderito in tanti, basti fare un giro sui social e inserire nel campo di ricerca la parola “giornalista”: vi troverete innanzi a qualunque improperio.

La colpa è sempre dei giornalisti, che abbiano in mano un microfono piuttosto che un taccuino, poco cambia. Pennivendoli, leccaculo, protagonisti della disinformazione, gli insulti sono i più vari ma l’obiettivo è unico: vanno vituperati, insultati, minacciati e qualche volta, purtroppo, aggrediti e feriti a morte (non dimentichiamo Daphne Caruana Galizia o Jan Kuciak).

I giornalisti, appunto, diventati di volta in volta simbolo di ciò che non va, di ciò che non si vuole sentire, ma anche l’opportunità per mettersi in mostra. E non importa che a minacciare siano terroristi o mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi, politici o semplici folli. L’importante è il fine: quelle matite da spezzare.

Il pensiero non può che andare a Charlie Hebdo quando, in quella tragica mattina del 7 gennaio 2015, i fratelli Said e Cherif Kouachi, armati di kalashnikov, attaccavano a Parigi la sede del giornale satirico durante la riunione settimanale di redazione: 12 i morti, tra i quali il direttore Stéphane Charbonnier, detto Charb, diversi collaboratori storici del periodico (Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Honoré), due poliziotti e numerosi feriti. In quel caso fummo, per una manciata di giorni, tutti “Charlie”.

A “casa nostra” non si scherza: più di dieci i giornalisti uccisi da mafie e terrorismo, moltissimi quelli minacciati quotidianamente. Diversi quelli “pestati a sangue”, basti ricordare il caso di Daniele Piervincenzi. E diciannove sono quelli sotto scorta.

A contribuire a questo clima alcuni “indegni” della professione, si va dai condannati – seppur in primo grado – nel Processo Aemilia per aver favorito l’associazione mafiosa con la propria “penna”, ai titoloni dei giornali provocatori (basti citare “Bastardi islamici” o “Comandano i terroni”). Fino al grave processo in corso a Catania nei confronti del super editore-direttore Mario Ciancio Sanfilippo, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa. A Ciancio, ras dell’informazione nel sud del Paese (e non solo), sono stati sequestrati beni per oltre 150 milioni di euro, fra i quali i giornali La Sicilia e La Gazzetta del Mezzogiorno ed alcune tv.

Sono questi solo alcuni degli episodi a cui, in molti, si ispirano per inneggiare alla morte del giornalismo (o dei giornalisti). Ma di mezzo ci finiscono tutti, soprattutto quei tantissimi colleghi che, nei territori periferici (come denuncia spesso la Fnsi), assolvono al diritto-dovere di raccontare. E lo fanno da soli. Quelle penne, strumento di libertà di un popolo intero, che si trasformano in un cappio, in solitudine urlante, in aggressione fisica, in esperienze traumatiche.

Insomma, va bene che “nessuno tocchi Caino”, ma non è neanche giusto che venga preso a schiaffi Abele!

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