Non c’è pace per Floriana Bulfon, la giornalista de “L’Espresso” che si è occupata di mafia a Roma, con particolare attenzione per l’attività della famiglia Casamonica, che in passato hanno anche minacciata per le cose che ha scritto e raccontato.
Lunedì 8 aprile l’ultimo episodio: una bottiglia in plastica con un liquido sospetto ritrovata nell’auto, una Smart. La giornalista aveva lasciato l’auto parcheggiata in prossimità dell’abitazione “che si trova a Roma, nel quartiere San Giovanni, in una via per altro molto trafficata e molto larga all’imbocco della tangenziale Est”, come racconta lei stessa all’Agi.
Puoi raccontare com’è andata?
“Sono rientrata a Roma verso sera dopo alcuni giorni di assenza per impegni di lavoro. Volevo usare l’auto per andare a fare la spesa e quando ho aperto la portiera con il telecomando e stavo per entrare sono stata investita da un odore acre, fortissimo che mi ha quasi stordita. Ho subito fatto un passo indietro e ho guardato meglio dentro l’auto e ho notato una specie di camicia arrotolata, tutta intrisa di un liquido, che era sparso anche sul sedile del passeggero. Sopra la camicia era appoggiata una bottiglia di minerale in plastica da un litro e mezzo con dentro ancora una parte di un liquido di colore rossastro-viola su cui erano appoggiate due sigarette del tipo corto, come tagliate. In realtà, nell’auto non sono nemmeno salita. Allora ho chiamato la Polizia ed è arrivata subito la Volante e poco dopo anche la scientifica che ha fatto tutti i rilievi necessari”.
Non c’è effrazione delle portiere?
“No, non c’erano segni di effrazione. Ma mi hanno anche spiegato che macchine come la Smart o autovetture di quel tipo possono essere aperte con sistemi elettronici che non lasciano traccia. Non c’erano vetri rotti, apparentemente nulla di strano da fuori. La cosa che mi ha colpito di più, ovviamente, è che è successo sotto casa, nella mia macchina personale, con la quale giro tutta Roma, nella quale praticamente vivo ed è anche il mio ufficio, facendo la free-lance. Perché è vero, sì, che avevo avuto altre minacce, ma le ho avute durante il lavoro che stavo svolgendo. Giro molto per i quartieri di Roma, racconto la criminalità, e questo certo piacere non gli fa, è evidente. Insomma, in principio sono state prima di tutto minacce sul luogo o messaggi attraverso i social network, mai così mirati, diretti. Sono rientrata a Roma da quattro giorni di lavoro, dovevo andare a fare la spesa perché non avevo nulla da mangiare, ero in una condizione di tranquillità, nel mio quartiere…, poi capisci che sei spiato…. Mi hanno seguito…?, Non lo so…”.
Ti senti intimidita?
“Non mi sento spaventata, ma so che è quello che vogliono. Di sicuro il motivo della minaccia era quello. Spaventarmi. Sapevo che prima o poi una cosa del genere avrebbe potuto accadere, ma proprio per questo sono determinata ad andare avanti. Non è che perché ho subito questa minaccia adesso smetto di raccontare quel che fanno. A loro dà fastidio, anche se io non posso dire da chi provengono queste minacce, se da un clan piuttosto che da un altro… Certo, ci sono dei clan di cui mi sono occupata più spesso ultimamente, più a lungo. Domenica scorsa ero alla Romanina, sono appena tornata da Foggia dove sono stata a fare un altro lavoro, ed è un’altra parte d’Italia. Pero quel che vogliono è il silenzio, non gli va bene che tu racconti gli affari loro…”.
È diventato più difficile raccontare e occuparsi di questi fatti negli ultimi tempi?
“Sì, è diventato più difficile. Lo è diventato andare in giro nei posti, perché ci sono situazioni in cui loro si sento i padroni e quindi non vogliono che tu vada a dargli fastidio. In realtà, negli stessi quartieri c’è anche tanta gente che ha voglia di dire ‘basta!’. C’è, sì, l’omertà, la paura, ma c’è anche l’idea che tu sei lì, inizi a raccontare, ci sono poi le istituzioni e un clima si può incrinare. E loro sanno che tutto questo entra in rotta di collisione con i loro piani. Loro devono sentirsi liberi di muoversi. Dopodiché su Roma c’è una tensione in più… pensa solo alle gambizzazioni degli ultimi tempi… qui si spara tutti i giorni… vuol dire che c’è qualcosa che non funziona”.
C’è stato un salto di qualità. C’è un ritorno agli anni a passato, come negli anni della Banda della Magliana?
“Più che altro c’è una città in cui per troppo tempo non s’è voluto vedere che c’era la mafia, non parliamo di mafia, poi ci rendiamo conto che la mafia c’è, ce ne sono molte, diverse e lavorano tutte benissimo. In genere, lavorano senza… - perché gli conviene - alzare il tiro, lavorano in sordina, devono fare affari… perciò il chiasso intorno non gli conviene… C’è però stata anche un’offensiva forte nei confronti di alcuni clan, si pensi ai Casamonica, anche in termini di arresti, e questo può aver effettivamente incrinato qualche equilibrio, qualcuno che vuole farsi vedere più forte mostra i muscoli. A Roma la violenza sta crescendo”.
È anche diventato più difficile fare questo mestiere? Indagare e raccontare?
“Ma è anche l’unico modo per farlo. Noi non facciamo né i poliziotti né i politici, l’unico modo per farlo è stare in mezzo alle persone, altrimenti ti leggi le ordinanze e le metti in bella copia. Facendo così per forza ti scopri. M piiù racconti le cose, più seguono gli arresti, ci sono le prese di posizione, ci sono le istituzioni che hanno dato delle dimostrazioni importanti, c’è il lavoro della Procura della Repubblica. Ci sono segnali importanti e positivi. Tutto questo messo insieme dà loro molto fastidio. Ma in più siamo a raccontare, più ci autotuteliamo. Anche il numero fa la forza. Se a chiedere e a raccontare ci vai in tre o quattro, se fai un lavoro di squadra senti che non sei solo. E loro stessi capiscono che si rompe la propria egemonia. Per troppo tempo si sono mossi tranquilli, indisturbati”.
L’ultima minaccia Floriana Bulfon l’ha subita nel luglio dello scorso anno, assieme a un collega del Tg2, da alcuni componenti della famiglia Casamonica. Era la mattina del 17 quando dopo una maxi operazione dei carabinieri, Bulfon è entrate in un vicolo di Porta Furba, quartier generale dei Casamonica, per dar voce alle persone dopo gli arresti e descrivere l’ambiente. Lì fu minacciata e insultata, assieme al collega, da alcune donne della famiglia. Volarono bastoni e altri oggetti, uno colpì anche un operatore”.
Delle difficoltà che incontrano i giornalisti nel loro lavoro, specie di quelli che si occupano di cronaca nera o di giudiziaria, ne ha scritto proprio su questo sito Paolo Borrometi: “È sempre colpa dei giornalisti. È quasi una moda, oramai, scagliarsi contro i cronisti o i reporter (…) diventati di volta in volta simbolo di ciò che non va, di ciò che non si vuole sentire, ma anche l’opportunità per mettersi in mostra. E non importa che a minacciare siano terroristi o mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi, politici o semplici folli. L’importante è il fine: quelle matite da spezzare”.
Ascolta anche questa intervista a Floriana Bulfon.