Tutti li ha vinti Felice Gimondi, nella sua carriera: il Giro, il Tour e la Vuelta. Ma anche il Campionato del Mondo, che ai suoi tempi era appena uscito dalla minorità delle gare agonistiche per essere - finalmente - considerato per quello che era: tra le corse in linea se non la più importante, almeno alla pari con le prestigiose.
Eppure gli pesa, anche adesso, quell'eterno dualismo con Eddy Merckx che lo vuole, anche se non è sempre vero, costantemente dietro, costantemente ad un centimetro dal successo che gli sarebbe costantemente sfuggito nemmeno fosse come Bottecchia, l'inafferrabile.
Chi ne sa di ciclismo sa bene che Merckx fu il più grande della sua generazione, ma sa anche che Gimondi Felice, padano di Sendrina in provincia di Bergamo, fu altrettanto grande. Almeno quando al via non si presentava l'eterno rivale. Semmai Gimondi fu l'ultimo, ma anche il primo.
L'ultimo di un ciclismo eroico che pochi anni prima del suo esordio (1964, vittoria al Tour de l'Avenir) aveva salutato il Campionissimo di ritorno da una battuta di caccia grossa in Africa. Ma anche il primo: di una generazione in cui il professionismo su due ruote si trasformava e diveniva un poco più impersonale, un poco meno coivolgente. Insomma: il professionismo diveniva, dopo lunga gestazione durata decenni, una professione. Non a caso dopo di lui ci sarebbero stati gli Hinault, e anche il dualismo tra Moser e Saronni non avrebbe mai scaldati i cuori, né fatto esclamare alla radio "C'è un uomo solo al comando".
Se le date hanno un senso, quel 1965 che lo vide trionfare al Tour con gran sorpresa di tutti (a partire dal suo capitano alla Salvarani, Adorni) è anche l'ultimo anno del grande boom italiano. Calava il sole sulla stagione del dopoguerra, incubava l'Autunno Caldo, e anche Gianni Brera che diciott'anni prima sprizzava metafore per descrivere Coppi primo a Parigi, per lui - stancamente, manieristicamente - non riusciva a coniar niente di meglio di un fiacco "Nuvola Rossa".
Aveva gli occhi alla Bartali e il sorriso da gallo allobrogio, e le gambe lunghe. Non come quelle di Anquetil, l'Airone Biondo che fece appena a tempo ad assistere al suo esordio, e magari nemmeno come quelle dello stesso Coppi. Ma ad un'Italia ancora contadina in fondo al cuore, in cui i maestri di Vigevano scoprivano con fatica le gioie della produzione casalinga delle tomaie, seppe regalare gli ultimi brividi autentici della vittoria in terra di Francia, tra i giornali che svolazzano.
Peccato per quel belga, e per di più fiammingo, che venne fuori subito dopo di lui, anzi quando lui stava per esplodere come il migliore del mondo in senso assoluto, e gli rubò la scena. Ma cosa si poteva fare contro uno che venne chiamato, immediatamente, il Cannibale? Il fatto è che Merckx di benzina nel motore ne aveva davvero tanta. Di più: nel motore aveva, come diceva la pubblicità a quei tempi, un tigre.
E sì, era davvero il migliore del mondo. Ma quanto al Mondiale, Felice seppe cavarsi la sua soddisfazione.
Era il 1973. Un anno prima, allo sprint, la corsa iridata era andata a Marino Basso: ottimo talento, non un campione. Aveva buggerato tutti nello sprint che chiuse una lunga fuga a quattro: lui, Franco Bitossi (che non digerisce questa conclusione), Merckx e Guimard.
Gimondi studia per un anno intero i tre minuti finali della gara, e quando compie il 17mo giro del Mont Jiuc in quel di Barcellona si trova al fianco di Ocana, Maertes e, naturalmente, del Cannibale. Questi aspetta che lanci la volta Maertens, per partire da dietro. Ma Gimondi, che a stare alla ruota di Merckx aveva imparato bene, non si lascia attirare nella trappola.
Lascia passare un pugno di secondi, quelli in cui il rivale è costretto ad uscire allo scoperto, poi lo infilza neanche fosse un pivello e se lo lascia alle spalle. Il Cannibale, a quel punto, cede di schianto: aut Caesar aut nihil e lui si piazza, sdegnato, al quarto posto. Solo perché non poteva più arrivare quindicesimo.
Il duello tra i due durerà altri cinque anni. Quando molleranno entrambi, a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro nel 1978, il campione del mondo è già un ragazzotto dalle gambe robuste chiamato Francesco Moser. È un altro ciclismo, un'altra Italia. Lontano dal fulgore venato di tragedia di Marco Pantani, ma che ha dimenticato per sempre gli sterrati di Ginettaccio e del Campionissimo. E dove passarsi una borraccia, tra rivali, è divenuto quasi impossibile.