“La prima adunata dei fasci di combattimento, strombazzata per settimane dal Popolo d’Italia come un appuntamento fatidico, era stata fissata al Teatro dal Verme, capace di 2000 posti. Ma la vasta platea è stata disdetta”.
“Tra la grandezza del deserto e la piccola vergogna, abbiamo preferito la seconda. Abbiamo ripiegato su questa sala riunioni del Circolo dei commercianti e degli industriali. È qui che dovrei parlare”.
“Tra quattro pareti tappezzate di un triste verde lago, affacciato sul nulla di una grigia piazzetta parrocchiale… piazza del San Sepolcro”.
“Cento persone scarse, tutti uomini che non contano niente. Siamo pochi e siamo morti. Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire”.
È il 23 marzo del 1919, cent’anni fa, e la voce e le parole sono quelle di Benito Mussolini per come gliele restituisce lo scrittore Antonio Scurati nel suo romanzo storico “M, il figlio del secolo” uscito per Bompiani lo scorso settembre e oggi candidato al Premio Strega.
È anche l’incipit del libro, in cui l’ardimentoso Mussolini appare come un uomo dubbioso, combattuto sulle scelte da operare.
Per prima cosa deve subito ripiegare, e rinunciare all’ampiezza della sala per evitare la brutta figura di una scena con numerose sedie vuote. Non se lo può permettere.
Eppure “sarà un un’adunata importantissima” recita il comunicato pubblicato dallo stesso giornale il 2 marzo.
Non un partito, ma un movimento
L’invito viene replicato anche il giorno 9 e questa volta viene anche motivato l’obiettivo, che è chiaro: “Il 23 marzo sarà creato l’antipartito, sorgeranno i fasci di combattimento contro due pericoli: quello misoneista di destra e quello distruttivo di sinistra”.
Due modi diversi ma al tempo stesso speculari di essere contro l’innovazione e la modernizzazione. Luddisti del presente e del futuro.
Tuttavia, l’indomani mattina di quel 23 marzo il quotidiano diretto dallo stesso Mussolini, annuncia che l’iniziativa ha riscosso un enorme successo e che le adesioni ai fasci fioccano e crescono a vista d’occhio.
In realtà, come rievocano Indro Montanelli e Mario Cervi ne "L’Italia del Novecento" (Rizzoli) e “come risulta da un rapporto della polizia, i convenuti a quella cerimonia di battesimo (…) non furono più di trecento, anche se poi l’onore di avervi partecipato fu rivendicato da parecchie migliaia di persone che in qualche modo riuscirono a farselo riconoscere”.
Un primo vezzo di trasformismo. E poi per tutti i vent’anni successivi tutta l’Italia viene costretta a festeggiare solennemente quella ricorrenza. Insomma, a dirla tutta inizialmente la vicenda dei fasci parte come un mezzo fiasco.
I fasci però non sono un partito, bensì il tentativo di dare una spinta ad un “movimento” con una chiara impronta antipartito, anche in polemica con il Partito socialista dal quale Mussolini è stato espulso cinque anni prima.
Quindi, nelle intenzioni, quello dei Fasci è per lo più uno “stato d’animo” che si prefigge di rompere gli schemi della politica tradizionale per dar vita ad una organizzazione di “ardimentosi” in grado di compiere la rivoluzione che deve portare alla nascita di una “nuova Italia”, per come la intende quel che sarà il futuro Duce del Paese.
Ma l’Italia di quel momento è una nazione appena uscita dalla guerra (novembre 1918), vincitrice ma in ginocchio, provata, con milioni di morti sulla coscienza, tanto che chi porta la divisa in quel momento viene considerato un reietto e un complice dello sfacelo del Paese. Viene evitato se non, addirittura, malmenato.
Ciò che acutizza il disagio e l’isolamento degli uomini ritornati dal fronte e che la Sinistra del tempo non sa cogliere. Acuendo la frattura tra i Paese e il suo ceto medio.
“Perché dovrei parlare a questi uomini?” dice tra sé il Mussolini cui lo scrittore Scurati restituisce la voce nelle sue pagine “stregate” e ieratiche dal forte fascino narrativo.
E lo stesso Mussolini si risponde: “È gente che prende la vita d’assalto come un commando. Ho davanti a me solo la trincea, la schiuma dei giorni, l’area dei combattenti, l’arena dei folli, il solco dei campi arati dai colpi di cannone, i facinorosi, gli spostati, i delinquenti, gli oziosi, i genialoidi, i piccolo borghesi (…), lo so, li vedo qui davanti a me, li conosco a memoria: sono gli uomini della guerra”.
In quel frangente Benito Mussolini, che il 23 marzo dà vita ai fasci di combattimento, nucleo originario e fondativo del futuro Partito Nazionale Fascista nel novembre del 21, ha dietro a sé due date uguali e al tempo stesso distanti.
La prima è il 24 novembre del ’17 - con la più grande disfatta militare di tutti i tempi che è stata Caporetto, “un esercito di un milione di soldati distrutto in una settimana”.
La seconda il 24 novembre del ’14, il giorno della sua cacciata dal Partito socialista con gli operai di cui fino al giorno prima è stato idolo e faro che si combattono a vicenda pur di prenderlo a cazzotti.
La sindrome del “piccolo borghese imbestialito”
Le elezioni politiche del 16 novembre 1919 sono per il fascismo un vero disastro. “Nella circoscrizione di Milano – ricordano Montanelli e Cervi nel loro libro – su 270 mila voti la lista capeggiata da Mussolini non ne raccolse neanche cinquemila. (…) I socialisti, che avevano riportato un clamoroso successo assicurandosi ben 156 seggi mentre 100 erano andati ai popolari di Don Sturzo, celebrarono i funerali di Mussolini portandone in giro la bara”.
Così Mussolini per allargare e rafforzare il proprio seguito apre le porte a chi più ne ha più ne metta, cioè “a tutt’altra estrazione sociale e ideologica: studenti, ex-combattenti delle ultime leve desiderosi di perpetuare ‘l’avventura’, scampoli della piccola e media borghesia benpensante e conservatrice che invece vedevano nel fascismo la ‘diga’ contro la sovversione, e una crescente falange di spostati in cerca di torbido in cui pescare”, si legge ne L’Italia del Novecento.
E nel largo quanto vago “movimento” messo su da Mussolini ognuno può starci e interpretarlo come meglio gli può convenire.
Mussolini stesso, complice e anche consapevole. Un ricambio di sangue in parte provocato e in parte accettato. Un’impalcatura che poi si fa regime.
Agli inizi del ’20, Mussolini dice di poter contare su 88 fasci e 20 mila iscritti ai suoi ordini. Una forza per lo più modesta, visto anche il tonfo elettorale dell’anno precedente. I Fasci non sono un partito né sembra desiderino diventarlo.
Si chiamano “movimento” dove ognuno si muove a modo suo “sotto la spinta propulsiva di qualche ras locale” e sotto una ferrea direzione e centralizzata popolar-populista molto buona per le adunate.
La leadership fiuta l’istinto del “piccolo borghese imbestialito” e ne fa leva contro tutto e tutti, in particolare “contro i socialisti, che di ritorno dalle trincee, lo avevano svillaneggiato e aggredito, ma anche contro i capitalisti ‘pescicani’ che avevano lucrato alle sue spalle, la Monarchia, la Chiesa, i partiti, la ‘politica’ in generale, insomma quello che oggi si chiama l’establishment”. O, se vogliamo, l’élite.
Gli italiani vengono di nuovo chiamati alle urne il 15 maggio 1921. E questa volta Mussolini registra un vistoso successo.