"Avevo 24 anni, il chiodo fisso della cronaca e la Nikon sempre a portata di mano. Ma quella mattina non potevo immaginare che la passione per la foto mi avrebbe fatto inciampare in un attimo di storia". Maurizio Piccirilli, all'epoca giovane freelance, racconta all'Agi il 'dietro le quinte' di una delle immagini più tragicamente famose della storia del Paese: quella di Aldo Moro riverso, cadavere, nel bagagliaio della Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra piazza del Gesù, sede del palazzo della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Pci.
"Sotto certi punti di vista - premette Piccirilli - sembrano trascorsi anche più di 40 anni: non esistevano telefonini, noi reporter giravamo con pesanti borse a tracolla e scorte di rullini da massimo 36 pose ciascuno: finito il lavoro, si correva in laboratorio a sviluppare e stampare. Ma, allora come ora, nel posto giusto al momento giusto ti portano le fonti giuste, l'intuito e, perché no, la fortuna".
Quel 9 maggio era il 55esimo giorno di un interminabile sequestro, già intriso del sangue innocente degli uomini della scorta di Moro, e dopo il comunicato numero nove delle Br, quello che annunciava l'"esecuzione della sentenza", in tanti temevano che il tempo delle trattative fosse davvero scaduto. "Giornalisti e fotografi - ricorda Piccirilli - si dividevano tra via del Forte Trionfale, sotto casa Moro, piazza del Gesù e la questura di Roma, con la sala cronisti piena giorno e notte. La notizia della liberazione o della morte poteva arrivare in qualsiasi momento e in qualsiasi modo".
Una mattina che sembrava come le altre
La mattina del 9 si era dipanata simile a tante altre: il bivacco a piazza del Gesù, uno scatto a qualche peones che entrava e usciva dalla sede del partito, tanti caffè e qualcosa da mettere nello stomaco. "Dopo mezzogiorno decisi di fare un salto a casa per mangiare, abitavo in centro, a piazza Paganica, ma appena rientrato sentii risuonare le sirene, tante sirene. Afferrai la borsa, scesi in strada e puntai verso Botteghe Oscure, accorgendomi che l'accesso a via Caetani dal lato di largo Argentina era sbarrato dalla polizia. Provai dal lato opposto, da via dei Funari: via libera".
La confusione era tanta, e la tensione pure: al centro di tutto una macchina rossa. La voce era che dentro ci fosse un cadavere. "Conoscevo come le mie tasche la via, i palazzi e i due cortili dove giocavo a pallone da ragazzino - continua Piccirilli - salii la prima rampa di scale e mi affacciai alla finestra del primo piano, quella della Discoteca di Stato, ma mi accorsi subito che la posizione non era quella giusta, troppo in picchiata rispetto all'auto. Dovevo cambiare posto. Pensai al signor Pino, il custode, che conoscevo da anni, e che sicuramente mi avrebbe aperto casa. Anzi, 'ci' avrebbe aperto casa perché nel frattempo avevo incrociato Gianni Giansanti, un altro freelance, di due anni più piccolo di me (morto nel 2009 a soli 53 anni, ndr) che - 'guidato' dalle sirene - si era precipitato lì in moto ed era pure lui riuscito a entrare nella via un attimo prima che diventasse impossibile. Lui e Rolando Fava, un collega dell'Ansa".
"Una scena quasi caravaggesca"
Piccirilli e Giansanti si sistemarono dietro le due finestre del mezzanino in una posizione ideale per riprendere quello che accadeva sotto di loro, attenti a non dare troppo nell'occhio: il rischio che qualcuno gli chiedesse, o gli ordinasse, di allontanarsi era concreto. "Minuto dopo minuto, saliva l'adrenalina e la convinzione che dentro quella Renault potesse davvero esserci il corpo di Moro: vedemmo arrivare il ministro dell'Interno Cossiga, Pecchioli, il capo della polizia. Centellinavo gli scatti, per paura di finire il rullino: Cossiga che guarda attraverso il portellone e si gira sconvolto, l'arrivo del prete, gli artificieri che tagliano le lamiere. Alla fine il cofano venne aperto: ho presente come se fosse adesso una scena quasi caravaggesca, la testa reclinata a sinistra, la barba di qualche giorno, il vestito grigio ferro, le gambe piegate sopra la coperta marrone. Continuai a scattare, sempre con la paura che ci mandassero via o che ci sequestrassero i rullini, anche se l'attenzione di tutti era assorbita solo e soltanto da quella macchina sarcofago. Ricordo i fotografi della Scientifica che, a semicerchio, si sistemano attorno alla macchina per i rilievi, l'arrivo dell'ambulanza dei vigili del fuoco, il corpo di Moro avvolto in una coperta che viene adagiato su una barella e portato via. La partenza dell'ambulanza diretta in obitorio fu il segnale che il nostro lavoro lì era finito: bisognava correre via, andare a sviluppare i negativi, 'bussare' ai giornali che sarebbero usciti con edizioni straordinarie. Io andandomene incontrai Alfredo Passarelli, giornalista de 'Il Tempo': le mie foto finirono sulla prima pagina del quotidiano di piazza Colonna (per il quale poi Piccirilli avrebbe scritto per anni, ndr), sulla Bild e altri giornali tedeschi. Giansanti vendette il bianco e nero all'Associated Press, ma aveva fatto anche degli scatti a colori, con sè aveva una pellicola al tungsteno, bluastra, destinata a un servizio per la tv: uno di quegli scatti diventò la copertina di Time".
Oggi quella foto sarebbe stata pubblicata?
"Eravamo due ragazzini alle prime armi, Gianni e io - conclude Piccirilli - alle prese con una foto che ha segnato la fine della prima Repubblica più ancora che Mani pulite e che, nel nostro caso, ci avrebbe anche dato la spinta decisiva a fare della passione per la cronaca, raccontata con le immagini o con le parole, un lavoro. Ma ogni tanto mi chiedo: oggi che tutti parlano di privacy e che anche gli Ordini professionali sono iperprudenti, quella foto sarebbe stata pubblicata? Penso di no. E sono convinto che sarebbe stato un errore, che per sconfiggere il terrorismo forse ci sarebbero voluti piu' anni: perché l'impatto di quell'immagine e' stato fortissimo sull'opinione pubblica, ha accelerato la fine delle Brigate rosse, ha segnato in modo plastico la distanza tra la pietas della gente comune e il pragmatismo della politica. La politica che in qualche modo aveva accettato l'idea che un uomo potesse essere lasciato morire in nome della ragion di Stato".