La libertà sessuale è un diritto ma ciò non giustifica il favoreggiamento della prostituzione. Lo afferma la Corte costituzionale, osservando che anche nell'attuale momento storico, e al di là dei casi di "prostituzione forzata", la scelta di "vendere sesso" è quasi sempre determinata da fattori, di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale, che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell'individuo e, in questa materia, il confine tra decisioni autenticamente libere e non è spesso labile e sfumato.
Le osservazioni della Consulta sono contenute nella sentenza, depositata oggi, con cui lo scorso marzo ha dichiarato non fondate le questioni sollevate dalla Corte d'appello di Bari - nell'ambito del processo escort - sulle disposizioni della legge Merlin che puniscono il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione.
I giudici della Corte spiegano quindi che queste "incriminazioni mirano a tutelare i diritti fondamentali delle persone vulnerabili e la dignità umana". Una tutela, osserva la Consulta, che si fa carico dei pericoli insiti nella prostituzione - anche quando la scelta di prostituirsi appare inizialmente libera - connessi, in particolare, all'ingresso in un circuito dal quale sarà difficile uscire volontariamente e ai rischi per l'integrità fisica e la salute cui ci si espone nel momento in cui ci si trova a contatto con il cliente. È il legislatore, "interprete del comune sentire in un determinato momento storico, che ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, un'attività che degrada e svilisce la persona", si rileva nella sentenza.
Nella sua ordinanza di riflessione, la Corte d'appello di Bari aveva messo in evidenza come l'attuale realtà sociale sia diversa da quella dell'epoca in cui la legge Merlin entrò in vigore: per cui oggi vi sarebbe anche una prostituzione per scelta libera, volontaria, come quella delle 'escort', la cui libertò di autodeterminazione sessuale, - era la tesi sostenuta nel ricorso - garantita dall'articolo 2 della Costituzione, veniva lesa dalle norme sottoposte al vaglio di legittimità. Al contrario, la Corte costituzionale ha osservato che l'articolo 2 della Costituzione, nel riconoscere e garantire i "diritti inviolabili dell'uomo", si pone in stretta connessione con l'articolo 3, che, al fine di rendere effettivi questi diritti, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali al "pieno sviluppo della persona umana".
I diritti di libertà, tra i quali "indubbiamente rientra anche la libertà sessuale", ha sancito la Corte, "sono, dunque, riconosciuti dalla Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della persona, e di una persona inserita in relazioni sociali". La prostituzione, invece, "non rappresenta affatto uno strumento di tutela e di sviluppo della persona umana, ma solo una particolare forma di attività economica. In questo caso - osserva la Consulta - la sessualità non è che una 'prestazione di servizio' per conseguire un profitto. Nè vale obiettare che un diritto fondamentale resta tale anche se esercitato dietro corrispettivo".
La Corte, quindi, fa notare che "in questo modo, qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo, se collegata a una libertà costituzionalmente garantita, diventerebbe un diritto inviolabile, nella misura in cui richiede l'esercizio di libertà costituzionalmente garantite". Non sussiste, si spiega ancora nella sentenza, neanche una violazione della libertà di iniziativa economica privata per il fatto di impedire la collaborazione di terzi all'esercizio della prostituzione in modo organizzato o imprenditoriale.
"Tale libertà è infatti protetta dall'articolo 41 della Costituzione - rilevano i 'giudici delle leggi' solo in quanto non comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la dignit umana" e le disposizioni incriminatrici contenute nella legge Merlin "si connettono a questi valori". Secondo la Corte, il fatto che il legislatore individui nella persona che si prostituisce il "soggetto debole" del rapporto spiega, inoltre, la "scelta di non punirla, a differenza di quanto avviene per i terzi che si intromettono nella sua attività".
La pronuncia della Consulta ha escluso poi la violazione del principio di offensività: "l'individuazione dei fatti punibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore - spiega la Corte - nel limite della non manifesta irragionevolezza, poiché implica valutazioni tipicamente politiche: e ciò tanto più rispetto alla prostituzione, che, come rivela l'analisi storica e comparatistica, si presta a diverse strategie di intervento.
Resta comunque ferma, rispetto alla disciplina vigente, l'operatività del principio di offensività 'in concreto', che impone al giudice di escludere il reato quando la condotta risulti, per le specifiche circostanze, concretamente priva di ogni attitudine lesiva". Infine è stato escluso che la norma che punisce il favoreggiamento della prostituzione sia in contrasto con i principi di determinatezza e tassatività perché "l'eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella fisiologia dell'interpretazione giurisprudenziale".