Più digitale per aiutare chi vuole essere onesto e scoraggiare chi non vuol esserlo. Lo raccomanda il rapporto, curato dall'associazione Riparte il futuro e da I-Com (Istituto per la Competitività), 'Italia interrotta: il peso della corruzione sulla crescita economica', nel quale si sottolinea che, nel complesso, l'Italia presenta un grado di sviluppo dei servizi pubblici digitali (Spd) piuttosto basso, simile a quello dei Paesi dell'Est Europa.
Ma non si tratta solo di questo: aumenterebbero gli investimenti stranieri, si creerebbe più lavoro per i giovani. Sembra un paradiso, ma forse non è un paradiso perduto.
Più digitale meno mazzette
Un incremento del 10% nello sviluppo digitale ridurrebbe la corruzione di circa il 14%.
Infatti, i Paesi con un alto livello di digitalizzazione subiscono meno il peso deleterio della corruzione. A primeggiare sono i Paesi del Nord Europa, sia da un punto di vista infrastrutturale sia per la penetrazione dei servizi digitali. In Italia invece lo sviluppo digitale è ancora scarso, sebbene negli ultimi anni il gap si stia riducendo, soprattutto grazie ai miglioramenti dell'offerta digitale fissa.
Nell’I-Com Broadband Index (IBI), che fotografa il livello di sviluppo della banda ultra larga in Europa e fornisce informazioni sull'offerta e la domanda di digitale, siamo ancora 22esimi ma con segnali di miglioramento. Ciò che continua a preoccupare, però, è il lato della domanda che posiziona l'Italia al 25 esimo posto, seguita solo da Grecia, Bulgaria e Romania.
Ciò significa che le competenze digitali sono ancora limitate come lo è l’utilizzo che cittadini e imprese fanno degli strumenti digitali. Nel rapporto, inoltre, si ipotizza anche che la corruzione stessa, limiterebbe la capacità di un Paese di svilupparsi nel digitale: un incremento del 10% nella qualità delle Istituzioni di un Paese potrebbe far aumentare dell’8,5% la domanda di servizi pubblici digitali.
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Due casi al giorno sul giornale, ma nel Paese reale sono molti di più
Più di due casi al giorno di corruzione riportati dai media nel 2017: in Italia la percezione del fenomeno corruttivo raggiunge picchi altissimi, con il 97% degli italiani che crede che la corruzione sia diffusa nel Paese. Si tratta della seconda percentuale dell’Unione Europea, che invece presenta un valore medio pari al 76%.
I settori maggiormente interessati sono quello lavorativo (702 mila famiglie), sanitario (518 mila) e degli uffici pubblici (411 mila). La regione più colpita è il Lazio, dove quasi una famiglia su cinque (esattamente il 17,9%) dichiara di aver avuto esperienza di tale fenomeno. Nettamente più virtuose le regioni settentrionali, in particolare Trentino A.A., Valle d’Aosta, Piemonte e Friuli V.G., dove l’incidenza è inferiore al 5%.
I procedimenti penali avviati per atti di corruzione sono cresciuti nell’ultimo decennio in maniera piuttosto stabile – ad eccezione dell’ultimo anno, dove si è registrato un lieve calo – e peculato e indebita percezione di erogazioni pubbliche a danno dello Stato sono i reati che presentano in assoluto l’incidenza maggiore.
Degli oltre 21 mila reati per cui sia stato avviato un procedimento penale nel decennio oggetto di osservazione, circa il 52% sono giunti a sentenza di condanna. Il 42% degli italiani pensa di essere colpito dalla corruzione nella sua vita quotidiana (media UE pari al 26%) e il 92% dichiara che la corruzione e i favoritismi ostacolano la competizione d’impresa (media Ue pari al 73%).
Nel rapporto si ricorda che il 'Corruption Perception Index' (CPI), elaborato da Transparency International, colloca l’Italia al 54 esimo posto su 180 Paesi considerati. Il punteggio assegnato all’Italia è di 50, in progressivo miglioramento rispetto al 47 del 2016 e al 44 del 2015, ma tuttora molto distante dai maggiori Paesi europei come Regno Unito e Germania (ottavo e dodicesimo posto).
Più onesti più ricchi
Se la corruzione diminuisse del 10% potremmo aumentare del 28% il flusso in entrata di investimenti stranieri. Negli ultimi anni l’Italia ha messo in campo diverse politiche per incentivare l’attrazione di investimenti esteri, ma soprattutto in alcune regioni, la corruzione e la scarsa qualità delle Istituzioni impattano negativamente sull’afflusso di capitali. Mentre per l’anno 2016 il Regno Unito è risultato quarto al mondo per flusso di investimenti stranieri (1.196 miliardi di dollari), l’Italia si è piazzata solo 18esima con 346 miliardi. Lo studio mette in relazione l’afflusso di investimenti esteri con l’European Quality of government Index (EQI) per i 28 Paesi dell’Unione europea arrivando a dimostrare che un aumento del 10% di questo indice si otterrebbe una crescita degli investimenti del 18,3%.
A livello globale ed europeo i risultati sono ribaditi dalla comparazione del Corruption perception Index (CPI) di Transparency International con l’afflusso di investimenti: per 172 Stati considerati, a un ipotetico aumento del CPI del 10% si otterrebbe una crescita degli investimenti esteri del 21,4%. Allo stesso modo, per l’Ue, a un miglioramento del 10% del CPI corrisponderebbe una crescita degli investimenti esteri del 28,1%.
Per valutare la dimensione italiana, il report compara l’EQI con il numero di multinazionali presenti nelle varie regioni e con la quota di multinazionali sul totale delle imprese attive in ogni regione. Si ricava che se la qualità delle Istituzioni migliorasse del 10% si otterrebbe un incremento della presenza delle multinazionali sul totale delle imprese dell’11,6%.
Lo studio di Riparte il futuro e I-Com, presentato a pochi giorni dall'ok in Cdm del ddl 'spazzacorrotti' (in cui sono confluite alcune delle proposte che 'Riparte il futuro' ha presentato personalmente al ministro Alfonso Bonafede agli inizi di agosto) e condotto sulla base di analisi statistiche ed econometriche, risponde all’urgenza di valutare l’entità dell’impatto di tangenti e malaffare sullo sviluppo del nostro Paese, inserito nel contesto globale ed europeo.
“Senza questa consapevolezza - afferma Federico Anghelé di Riparte il futuro - è difficile porre le basi per un reale contrasto e un’efficace prevenzione della corruzione. Per questo la nostra associazione, da cinque anni al fianco della società civile impegnata nella lotta al fenomeno, ha deciso di affrontare il tema con uno studio inedito per metodologia e fonti adottate. Il nostro obiettivo è offrire un accurato riferimento scientifico e agire da pungolo per motivare le Istituzioni a fare la loro parte”.
La corruzione "è deleteria perché tarpa le ali alla competitività del Paese - osserva il presidente di I-Com, Stefano da Empoli - e investimenti esteri e digitalizzazione sono due driver fondamentali per la crescita economica e dunque anche per l’occupazione, a cominciare da quella dei più giovani. La corruzione scoraggia sia gli investitori che le startup ma la digitalizzazione può essere un importante antidoto al malaffare, perché rende le relazioni più trasparenti e tracciabili, riducendo quella discrezionalità che nel nostro Paese si trasforma spesso in arbitrio”.
Più lavoro per i giovani
Esiste una relazione tra corruzione e occupazione, in particolare quella giovanile. Gli alti livelli di disoccupazione giovanile nel nostro Paese, infatti, sono un grave sintomo dello stallo economico. Si pensi solo che un quarto dei giovani italiani fanno parte della categoria dei 'Neet', ovvero non sono occupati, non studiano né sono coinvolti in percorsi di formazione.
La corruzione ha un potente effetto sull’occupazione di un Paese: se associato a un aumento della qualità delle Istituzioni, un minore livello di corruzione porterebbe a una crescita dell’occupazione, diminuendo anche il numero dei 'Neet'.
Puntando il faro sull’Italia, nelle regioni dove è più alta la qualità dell'amministrazione e minore il livello di corruzione, troviamo tassi di occupazione giovanile più elevati. Analogamente, a un valore dell’EQI (European Quality of government Index) maggiore corrispondono tassi di disoccupazione più bassi, sia generali che per la fascia 25-34 anni. Inoltre, nelle regioni con una più alta qualità delle Istituzioni è inferiore il numero di 'Neet' nella fascia d’età 15-34 anni. Infine il report dimostra che, nelle regioni in cui è presente un maggior numero di multinazionali, l’occupazione giovanile è più elevata.