Nell’Italia incurante del coronavirus che continua a sgavazzare tra happy hour e settimane bianche, la decisione del governo di chiudere da domani gli impianti sciistici in tutto il Paese suona come un benvenuto richiamo alla responsabilità che la crisi impone. Dice a tutti che la ricreazione è finita, che non è più l’ora di spassarsela come se nulla fosse, come se per fermare il contagio non fosse richiesto l’impegno e il sacrificio di tutti.
Tutti. Non solo di chi si è trovato, dalla sera alla mattina, rinchiuso nella vasta zona rossa del Nord, con una patente di appestato virtuale e quindi intoccabile, che rende piuttosto disagevole perseverare nelle attività autoedonistiche della movida in tutte le sue declinazioni modaiole e alpine. Ma anche chi si è affollato sulle spiagge liguri per godere del sole che profuma già di primavera, chi si è accalcato nel quartiere romano di San Lorenzo per tracannare uno spritz e ingollare pizzette nelle autistiche apericene con gli occhi incollati sullo smartphone, chi si è messo i doposci e il piumino più à la page per bere un prosecchino spaparanzato sulle sdraio a bordo pista.
A questi, soprattutto, sembra parlare il governo quando chiude gli impianti sciistici. Per dire che adesso non è il caso. Per invitarli a unirsi alla stragrande maggioranza degli italiani che hanno adattato il loro modo di vivere alle restrizioni emergenziali. E che torneremo a respirare la montagna quando potremo respirare tutti.
E magari, tornandoci, potremmo ricordarci delle parole di Dino Buzzati, grande scrittore, grande giornalista e grande appassionato di montagna. Diceva, Buzzati, che la frenesia di andare in montagna “con le spese pazze, i capricci della moda, gli abiti ridicoli, i virtuosismi, le infatuazioni , le stoltezze, le gambe rotte e altri guai, è una forma di pazzia che nell’Ottocento sarebbe riuscita incomprensibile. Quando siamo lassù, il cervello autonomamente si riduce alle dimensioni di quello di un grillo o maggiolino……Eppure come è bello”. Ma non ora. La prossima volta.