A cosa serve il carcere? Per Gherardo Colombo, l'ex pubblico ministero di 'Mani Pulite' che ha indicato la via della galera per tanti 'colletti bianchi' prima di convincersi che fosse molto più efficace parlare nelle scuole che indossare una toga, "è una fabbrica di recidiva, più che un mezzo per contenerla". L'affermazione sembra quasi un'ammissione di colpevolezza perché resa alla redazione dei detenuti della terza casa circondariale di Rebibbia che lo hanno intervistato in occasione della prima uscita del mensile 'Beccati a scrivere'.
E infatti i 'novelli' cronisti, guidati dall'ex inviato del Tg2 Fabio Venditti, non si lasciano sfuggire l'occasione di metterlo alle strette, come lui sapeva fare molto bene negli interrogatori di quella stagione rivoluzionaria e controversa: "Negli ultimi anni - gli domandano - lei ha cambiato posizione rispetto al periodo in cui esercitava il suo ruolo di magistrato, sia come pubblico ministero che come giudice. Non ci poteva pensare prima?". La risposta è disarmante, quanto sincera: "Sì che ci potevo pensare prima, ma per arrivare a pensarci devi fare un percorso lungo. Esci dall'università con il mito della prevenzione generale e speciale: generale perché se minaccio la pena metto paura e speciale perché se uno subisce la pena poi non commette più reati. Ma non è così. Guardi più alle regole e ti convinci che quel che dice la Costituzione venga applicato. Ma la lettera della legge non sempre corrisponde alla realtà. Può anche succedere ma di rado".
La realtà è quella che gli sottopongono gli ospiti della 'Terza Casa' del carcere romano, che pure è un luogo 'speciale' all'interno delle mura dove si arriva se si hanno da scontare condanne non troppo pesanti e gli ambienti sono molto più umani, come raccontano nel loro editoriale di presentazione: "Le finestre sono grandi e con sbarre molto più sottili, che fanno meno prigione". Sempre carcere è, però. Coi problemi di tutte le prigioni italiane. "Cosa pensa delle visite coniugali: perché non metterle in atto anche in Italia?", domandano a Colombo. "Io sono dell'idea ma soprattutto lo è la nostra Costituzione che tutti i diritti dei detenuti che non contrastano con la sicurezza della collettività debbano essere garantiti. Ma la cultura dominante ritiene che il detenuto debba soffrire...".
Si sbilancia anche quando viene sollecitato sui colloqui "via Skype per chi ha i parenti lontano". "Sarebbe una misura ovvia, così come un maggior numero di colloqui telefonici e di durata più lunga". I magistrati come individui hanno un potere discrezionale per rendere meno ostili le carceri, secondo Colombo. Quando gli chiedono se si senta responsabile in prima persona "di chi è finito in carcere perché senza lavoro e poi è diventato delinquente", stavolta si difende con fermezza e svela un episodio: "Mi sono occupato soprattutto dei 'colletti bianchi'. Raramente qualcuno dei miei imputati è finito in carcere perché senza lavoro, anche in riferimento ai reati comuni. Non è che risulti di frequente la causa scatenante di un reato. Una volta, come procuratore di turno, mi è capitato d'imbattermi nell'arresto di una persona che aveva rubato una scatoletta di tonno in un supermercato. Ne ho ordinato il rilascio immediato. La possibilità di attenuare c'è sempre. Ancora una volta il problema è culturale. A volte anche i magistrati sono contagiati da questa cultura secondo la quale chi ha commesso un reato deve pagare".
Dalla cultura, vera ossessione di Colombo da quando ha riposto la toga a soli 60 anni nel 2007 per la sua 'seconda vita' da educatore, prova a ripartire anche 'Beccati a scrivere': "Capita che le persone in carcere facciano qualcosa di nuovo - scrive Venditti nel numero di esordio che comprende articoli di riflessione ma anche di musica, poesia e cucina - facciano qualcosa di completamente nuovo nella loro vita: studiano, imparano un lavoro, apprezzano la condivisione di esperienze positive. In questo bisogna investire, nella formazione e non nell'edificazione di nuove gabbie".