Falsa partenza. Dallo spettacolo dei droni nei cieli di Shangai (mai avvenuto) alla “fotografia” satellitare degli incendi australiani (che tale non era), il 2020 inizia nel segno dell’ingenuità e dell’eccessiva fiducia verso ciò che vediamo e condividiamo.
È il caso degli attacchi di hacker iraniani ai danni dei sistemi informatici statunitensi, inizialmente ingigantiti dai media americani e poi ricondotti a isolate iniziative di protesta che nulla hanno a che fare con la reale capacità cibernetica degli hacker di Teheran. Oppure del collegamento tra il leader sciita ucciso dal drone americano e l’attentato delle Torri Gemelle: un’accusa lanciata dal vice della Casa Bianca, Mike Pence, e condivisa milioni di volte sui social network, prima di venire anch’essa smentita sulla base della corposa documentazione che riguarda le vicende dell’Undici Settembre.
Tutte storie che, nonostante siano completamente slegate tra loro, riflettono un incauto approccio all’informazione e che imporrebbero a utenti, lettori e media una maggiore prudenza nel credere e diffondere delle notizie senza verificarle. Soprattutto quando questa vulnerabilità a ciò che vediamo online può costruire significati e credenze, sfruttabili tanto per condizionare l’opinione pubblica di un Paese quanto per portare a segno una truffa informatica.
Il fenomeno deep-fake, e i suoi rischi
È il caso dei deep-fake, ovvero di quei contenuti multimediali realizzati grazie all’ausilio delle intelligenze artificiali, che permettono di combinare fotografie e video originali con dei falsi inducendo chi li guarda a credere che ciò che ha davanti sia autentico. Il più celebre esempio di questa tecnologia, in Italia, è rappresentato dal video di un falso Matteo Renzi che apostrofa con gesti e pernacchie il capo dello Stato in un fuorionda. Un filmato realizzato con l’ausilio dell’intelligenza artificiale e mandato in onda dalla trasmissione Striscia la Notizia senza che si avvisassero i telespettatori. Ma ancora prima, in modo analogo, una riproduzione digitale di Mark Zuckerberg confessava con ostentata serenità di avere in mano le vite private di miliardi di persone. A differenza del finto Renzi, in questo caso gli autori sono due artisti americani, che hanno voluto così lanciare una provocazione, dando comunque notizia del fatto che si trattasse di una loro creazione.
Ma oltre alla beffa, all’utente rimane il rischio di cadere in truffe che si avvalgono di queste tecnologie per costruire innovativi e originali schemi di phishing. A lanciare l’allarme sono i numerosi report sulla sicurezza informatica in previsione del 2020, che vedono proprio nel deep-fake lo strumento di circuizione del futuro, capace di indurre una persona a fornire una password o effettuare un bonifico in totale buonafede.
La prima vicenda di questo tipo risale a metà del 2019, quando il Wall Street Journal ha riportato di una truffa ai danni di una compagnia energetica britannica. Secondo la testata, dei criminali avrebbero utilizzato un software in grado di imitare la voce di un dirigente dell’azienda, il quale chiedeva per via telefonica di disporre il trasferimento urgente di 200 mila euro in favore di un fornitore ungherese. Naturalmente, il conto indicato per il versamento era controllato dagli stessi truffatori, che hanno così potuto impossessarsi del denaro.
“I costi associati alle truffe di tipo deepfake supereranno i 250 milioni di dollari nel 2020”, si prevede in un’analisi condotta da Jeff Pollard per la Forrester Research. “Ora che esiste un precedente che dimostra i guadagni economici derivanti dalla tecnologia deepfake sostenuta dall'Intelligenza Artificiale, aspettatevi che ne seguano altri”.
Ma allora come svelare gli imbrogli nascosti tra le maglie della rete? Secondo una ricerca statistica del 2017, condotta da studiosi statunitensi e britannici, gli italiani riportano di essere maggiormente attenti alle false informazioni rispetto ai cittadini di Regno Unito, Francia, Germania, Polonia, Spagna e USA. Un dato che sembra contrastare con l’apparentemente copiosa diffusione delle cosiddette fake news, ma che lascia sperare nella capacità nostrana di verificare un’informazione prima di condividerla. Anche perché, si legge nello studio, “gli utilizzatori di Internet in Italia affermano di trovare informazioni false e di imparare sempre qualcosa di nuovo da esse grazie alle ricerche online più spesso dei rispondenti nella gran parte degli altri Paesi analizzati”. Tuttavia, prosegue lo studio, “i rispondenti in Italia sono tra i meno fiduciosi nelle loro capacità e riportano un senso di sopraffazione maggiore rispetto agli altri”.
Il cielo di Shanghai
Ma dove neanche il proverbiale scetticismo di San Tommaso potrebbe far nulla, dovremo (dovremmo) riuscire noi, magari facendo proprio tesoro della prima settimana del 2020. L’anno nuovo è stato infatti salutato con la diffusione da parte di Associated Press di un video che rappresenterebbe la spettacolare esibizione di droni del capodanno di Shanghai, suscitando grande stupore da parte di chi era in città e che ha giurato di non aver visto niente di simile. Sebbene l’origine del video non sia stata ancora chiarita, il sito Shangaiist ha ricostruito gran parte della vicenda, accertando che, quantomeno, il video era in circolazione da prima del 31 dicembre e che potrebbe trattarsi della simulazione digitale di uno spettacolo mai avvenuto.
L’Australia in fiamme
Più di venti vittime, milioni di animali morti e una superficie arsa grande quanto due volte il Belgio fanno di quella australiana una delle più grandi crisi ambientali degli ultimi anni. Per aiutare a raccontare ciò che stava accadendo, il grafico Anthony Hearsey ha realizzato un’immagine nella quale raccoglie le informazioni degli incendi che hanno afflitto il continente nel periodo tra il 5 dicembre 2019 e il 5 gennaio del 2020, utilizzando i dati provenienti dal servizio Firms (Fire Information for Resource Management System) della Nasa. Pubblicata su Instagram, l’immagine ha fatto il giro del mondo, rendendo ancora più chiara la drammaticità del cataclisma. Tuttavia, moltissimi utenti l’hanno condivisa credendo che si trattasse di una singola foto satellitare e non di una ricostruzione tridimensionale, contribuendo a diffondere una falsa informazione che, pur non togliendo nulla alla gravità degli incendi australiani, è semplicemente falsa. Fortunatamente, una precisazione in tal senso può essere d’aiuto nel divulgare l’esistenza del Firm, prezioso strumento messo a disposizione della Nasa che permette “di esplorare interattivamente l’intero archivio degli incendi attivi a livello globale” con immagini aggiornate circa ogni tre ore. Portale prezioso da tenere tra i preferiti per osservare occasionalmente gli esiti del riscaldamento globale nel mondo.
Gli hacker iraniani
Rilanciata da media statunitensi e internazionali, ha suscitato preoccupazione la notizia degli hacker iraniani che, in risposta all’omicidio del generale Qassem Suleimani il 3 gennaio, avrebbero preso di mira siti istituzionali e governativi del Paese. Una notizia vera solo a metà: in realtà si è trattato di episodi di defacement, nei quali una persona non autorizzata riesce a modificare i connotati di una pagina web. E questo hanno fatto gli autori del gesto vandalico (difficilmente si può utilizzare il termine hacking in questo caso), introducendo su alcuni siti web delle immagini anche molto violente in cui sono rappresentati Trump, l’Ayatollah Khamenei o la bandiera iraniana insieme a degli slogan che annunciano vendetta nei confronti degli Stati Uniti.
Messaggi sicuramente forti, ma che difficilmente possono essere assimilabili alla reale potenza degli hacker iraniani, che secondo molteplici analisti sarebbero tra i più dotati e meglio addestrati sullo scacchiere della cyberwarfare, come Agi ha già raccontato. Il cosiddetto defacement è una pratica comune soprattutto tra gli script kiddies, ovvero i neofiti dell’informatica d’assalto che hanno acquisito capacità tecniche sufficienti a modificare le grafiche di un sito ma che non necessariamente sarebbero in grado di condurre operazioni più complesse o sabotare delle infrastrutture critiche.
Suleimani e l'Undici Settembre
Infine restano le parole di Mike Pence, vice presidente degli Stati Uniti e dunque tra gli uomini più influenti al mondo, il quale ha giustificato l’attentato a Qassem Suleimani in quanto quest’ultimo sarebbe stato coinvolto addirittura nella strage dell’Undici Settembre. Il generale avrebbe “fornito assistenza nel viaggio clandestino verso l’Afghanistan a 10 dei 12 terroristi che hanno compiuto l’attentato dell’11 Settembre”, scrive Pence su Twitter.
Da giorni l’amministrazione Trump è oggetto di critiche provenienti da tutto il mondo e il tweet del vice presidente è inserito nel più ampio contesto di una lunga difesa di questa decisione. Il senso finale è che “Il mondo è un posto più sicuro perché Suleimani è morto”, si legge. Tuttavia stona il riferimento alle Torri Gemelle, dal momento che finora mai alcun documento ufficiale ha mai collegato Suleimani o l’Iran stesso all’attentato. L’accusa è anche oggetto di un ampio approfondimento del New York Times, il quale ne evidenzia la contraddizione con qualsiasi altra fonte ufficiale di intelligence, notando tra l’altro che gli attentatori dell’11 Settembre erano diciannove e non dodici.
Ma in ciascuno di questi esempi, le smentite arrivano sempre con minore efficacia rispetto alla notizia che le ha generate. E lo spazio che le separa è storicamente quello all’interno del quale possono muoversi le strategie di condizionamento di attori interessati a sfruttare più di altri le possibilità offerte da un mondo connesso. In una ricerca del 2012, un Data Science team di Facebook aveva collaborato con la Cornell University e con l’Università della California per dimostrare come un gruppo di utenti sia facilmente condizionabile in base a ciò che vede sul proprio feed: a chi venivano mostrati contenuti emotivamente positivi veniva più spontaneo condividere contenuti positivi e viceversa.
Un meccanismo che, scrive l’esperto di geopolitica Francesco Vitali Gentilini in Balle Planetarie, Guida alla lettura consapevole nell’era della fabbrica globale delle fake news (a cura di Luciano Cerasa, Eurilink University Press, 2019), “ci ricorda l’effetto di ‘additivo sociale’ dei Social Media, ovvero la loro capacità di velocizzare o rallentare considerevolmente fenomeni politici, sociali, economici in essere”, dando così a chi ne detiene gli strumenti la possibilità di forzare gli strumenti cognitivi di un soggetto. Ma Facebook ha ormai sedici anni, Twitter quattordici, Instagram nove e all’utente non restano più scuse, avendo superato anch’esso l’età della ragione.