Uscita da quell'aula della seconda sezione del Tar dell'Emilia Romagna, si è messa in un angolo ed è scoppiata in lacrime, ma decisa più che mai ad avere giustizia, proprio nel luogo in cui la giustizia è amministrata. Asmae Belfakir, la 25enne praticante avvocato dell'ufficio legale dell'Università di Modena e Reggio Emilia, usa solo una parola per riassumere la giornata in cui si è vista cacciata da un giudice a causa del velo che portava in testa: "Amarezza".
"Doveva essere un'udienza come tutte le altre - spiega in un colloquio con l'AGI, che per prima ha rivelato la vicenda. "Ero lì insieme al nostro avvocato e a un'altra mia collega praticante per assistere al procedimento riguardante un ricorso e una contestuale istanza di sospensione cautelare in materia di appalti". Nulla di nuovo insomma. "Il 5 dicembre scorso avevo partecipato a un'altra seduta con lo stesso giudice e non mi aveva detto nulla", continua Belfakir.
"Questa mattina, invece, ha subito puntato il mio velo e senza nemmeno nominarlo mi ha detto che avrei dovuto toglierlo per poter continuare a partecipare. Ovviamente mi sono rifiutata, anche perchè la legge parla di volto coperto, non del capo. Nel mio caso, con il volto scoperto, l'identificazione era immediata e non vi era dunque alcun rischio per la sicurezza".
Asmae Belfakir è nata 25 anni fa a Icht, nel profondo sud del Marocco. Tre mesi dopo si è trasferita in Italia, nella provincia di Modena, con i genitori: padre dipendente in un'azienda di ceramica e madre casalinga. Oggi in famiglia ci sono anche una sorella di due anni più giovane, laureata pochi mesi fa in lingue e mercati dell'Asia, e un fratellino di sette anni.
Si è diplomata al liceo classico di Vignola con cento. All'Università di Modena si è laureata, nel marzo dell'anno scorso, con 110 e lode. Ha presentato una tesi, in inglese, sul diritto e le religioni. Ha partecipato a decine di conferenze accademiche in giro per l'Europa. Da ottobre è praticante avvocato all'ufficio legale dell'Università di Modena e Reggio Emilia.
Cosa dice il codice di procedura penale
Sulla porta della camera di consiglio nella sede di Bologna del Tar dell'Emilia Romagna, è affisso un cartello con la citazione dell'articolo 129 del codice di procedura civile che tra le altre cose richiama per chi interviene o assiste all'udienza al dovere di "stare a capo scoperto". Lo scritto è appeso all'ingresso dell'aula di udienza dove, mercoledì mattina, era presente Asmae Belfakir. In particolare si legge: "Chi interviene o assiste all'udienza non può portare armi o bastoni e deve stare a capo scoperto e in silenzio". "È vietato fare segni di approvazione o di disapprovazione o cagionare in qualsiasi modo disturbo".
In effetti il giudice Mozzarelli ha posto la questione su un altro piano: "Non ha parlato di norme", sottolinea la giovane praticante. “Quando stavo lasciando l'aula ha detto che si tratta del rispetto della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Eppure l'aula di un tribunale dovrebbe essere laica e rispondere ai dettami della legge e a null'altro". Belfakir non riesce a nascondere la delusione: "Sono stata privata non solo di un diritto ma anche del mio dovere di praticante avvocato di seguire cosa succedeva in aula. Mi chiedo: se un giorno dovessi diventare avvocato o giudice, dovrò sempre difendere prima me stessa e poi i miei clienti?".
Non è mancata la solidarietà da parte di altri professionisti che si trovavano in tribunale: "Almeno quattro persone, di cui tre donne, si sono avvicinate a me per consolarmi. Questo mi ha rincuorata molto perché ho capito che si è trattato di un episodio singolo, che non può rappresentare tutta la professione. Inoltre, molti mi hanno lasciato i loro biglietti da visita e si sono detti pronti a difendermi in tutte le sedi". Belfakir ora chiede provvedimenti nei confronti del giudice ma si impegna, anche, a "portare avanti una campagna culturale per fare in modo che le ragazze come me non debbano scontrarsi con questi muri ogni giorno. È già estenuante farlo per strada, non lo possiamo fare anche nelle aule dei tribunali".
Un caso simile nel 2011
Il caso Belfakir ricorda un'analoga vicenda datata 14 ottobre 2011. Allora, nel corso di un processo penale a Torino, il presidente del Collegio chiese ad un'interprete di religione musulmana, nominata dal pm, di lasciare scoperto il capo e lei, per tutta risposta, rinunciò all'incarico. Nell'occasione, fu lo stesso presidente del Tribunale a chiedere lumi al Consiglio superiore della magistratura, che il 5 febbraio del 2012 rilevò come "l'articolo 19 della Costituzione, che sancisce la libertà di professare liberamente e anche pubblicamente la propria fede religiosa, individua un valore di rilevanza primaria al quale deve conformarsi anche l'esercizio delle prerogative di direzione e organizzazione dell'udienza riconosciute al giudice".
Pertanto, si legge nella conseguente delibera, "deve essere garantito il pieno rispetto di quelle condotte che, senza recare turbamento al regolare e corretto svolgimento dell'udienza, costituiscono legittimo esercizio del diritto di professare il proprio culto, anche uniformandosi ai precetti che riguardano l'abbigliamento e altri segni esteriori". Ma attenzione: l'organo di autogoverno dei giudici dei Tar non è il Csm, ma il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Al momento, quindi, tecnicamente il divieto rimane in vigore per le aule di Tar e Consiglio di Stato.