L’unico modo per capire quel senso di abbandono, sorpresa, sovrana confusione è inserire un dvd nel televisore e guardarsi la telefonata tra il sottotenente del Regio Esercito Italiano Alberto Innocenzi, al secolo Alberto Sordi, ed il comando di Venezia: “Signor generale, i tedeschi si sono impazziti. Si sono alleati con gli americani ... ”. La linea a quel punto si interrompe. Non verrà mai ripristinata: è l’8 settembre 1943, e ancora 75 anni dopo noi non sappiamo se quel momento segnò la morte della Patria, o la sua rinascita. Le mitragliatrici tedesche continuano a sparare sui militari italiani. Innocenzi Alberto, classe 1920, prende, a piedi, la via di Roma. È l’inizio di “Tutti a casa”, capolavoro firmato Luigi Comencini, un titolo che è entrato nel frasario comune perché come pochi altri riflette uno stato d’animo vissuto da un’intera nazione.
Cronaca di un giorno normale
L’8 settembre del ’43 vede l’Italia stanca di una guerra che dura da 1.184 giorni, nonostante il fascismo che l’ha voluta non esista più, almeno ufficialmente, da un mese e mezzo. Il Paese sonnecchia – è la fine dell’estate – in attesa degli eventi. Gli eventi ci sono stati, ma nessuno l’ha detto all’Italia.
Cinque giorni prima, in una Sicilia già occupata dagli Alleati, i rappresentanti del governo Badoglio hanno firmato l’armistizio con il generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo. Vittorio Emanuele lo sa, ma tentenna: annunciarlo o no? I nazisti potrebbero reagire.
Nessuna decisione viene presa, gli americani perdono le staffe e fanno sapere che o l’annuncio lo danno gli italiani, o faranno loro. E sarà peggio.
Alle 19,43 il generale Badoglio, capo del governo, parla alla nazione via etere, e dall’Eiar annuncia la cessazione delle ostilità. Nelle case è ora di cena e nelle caserme del rancio. Nessuno può essere preparato. Nessuno, tranne la Corte e il governo.
Tutti a Pescara
È la pagina più nera della storia dell’Italia unita: il Re fugge da Roma con tutta la sua corte, Badoglio con i suoi ministri. Roma e l’Italia sono lasciate al loro destino, sotto la foglia di fico di un’amministrazione militare o più semplicemente nel vuoto più assoluto. I maggiorenti di una monarchia che tempo tre anni sarà mandata essa stessa a casa viaggiano nella notte per Pescara, per prendere una corvetta in direzione della costa pugliese, e di lì finire con il tempo a Salerno. Come sempre in questi casi qualcuno resta fuori: Mafalda di Savoia, di ritorno dalla Bulgaria, non viene avvertita. Nemmeno lei. Morirà a Buchenwald. L’unica Savoia ad avere condiviso il destino dei suoi sudditi.
L’inatteso risveglio
Il resto è storia nota: nascita del movimento di Resistenza, la Guerra di Liberazione, la nascita della Repubblica Sociale e il 25 aprile. Ma anche negli anni del Boom, anche quando l’Italia è divenuta una democrazia matura un tarlo continua a scavare nella mente degli storici, dei politici, dei polemisti o anche solo di chi ha memoria. Fu il giorno della dissoluzione del Paese, della sua umiliazione totale: chi non è in grado di chiudere la porta di casa ai ladri e agli assassini è un essere umano fallito. Ma basta, questa interpretazione?
In fondo proprio quello che nacque di buono più tardi, dalla Costituzione alla ripresa economica alla democrazia, inizia in quelle poche ore che vanno dalle 19,43 alla mezzanotte di quel giorno infausto di 75 anni fa. Il desiderio legittimo di salvare la pelle porta sì alla vigliaccheria, ma al tempo stesso impone una istintiva riflessione: se sia vita quella senza dignità, o se non valga la pena di lottare per una vita dignitosa. Ecco allora che l’8 Settembre segna una necessaria, istintiva reazione, che spinge il giovane Persichetti, insegnante di liceo, a finire a Porta San Paolo sotto i colpi dei nazisti per impedire, quasi a mani nude, l’ingresso a Roma ai paracadutisti del colonnello Student. Roma, città accidiosa per eccellenza, serva di tutti gli eserciti, fu la prima a reagire e questo la dice lunga.
Se, come diceva Flaiano, il Tricolore reca tessuta in un angolo, piccola piccola, la frase "tengo famiglia", è anche vero che anche di rispetto di sè è fatta l'anima di questo Paese. E in molti lo capirono, quella notte e nelle notti successive. Solo che ancora adesso non ci riflettiamo abbastanza su.
Lo capisce anche Alberto Innocenzi, che nel frattempo è finito a Napoli invece di fermarsi a casa, sospinto dagli eventi più grandi di lui. Alla fine anche Alberto Sordi, la rappresentazione plastica dell’arte di arrangiarsi, prende il fucile e spara sui nazisti. E dice: “Non si può sempre restare a guardare”. Anche questo sarebbe stato un bellissimo titolo per il film di Comencini.