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Oltre cinquemila docenti universitari in tutta Italia sono pronti a cancellare un appello d’esame della sessione autunnale che va dal 28 agosto al 31 ottobre per protestare contro il ministero dell’Istruzione. Il motivo? Lo spiegano da tempo: i loro stipendi sono fermi dal 2011.
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Dal 2011 al 2016 c’è stato un blocco degli scatti con gli stipendi fermi a 3.300 – 4.000 euro per quanto riguarda i professori ordinari, 2.200 – 2.700 per gli associati e 1.300 – 1.700 per i ricercatori. E se per gli altri impiegati pubblici lo scongelamento parte dal primo gennaio 2015, per i professori universitari la fatidica data è il 1 gennaio 2016. “Non solo un anno in più rispetto agli altri, ma anche con la cancellazione di questi cinque anni passati. Come se non fossero mai esistiti ai fini della carriera, della pensione, del Tfr. Noi non pretendiamo gli arretrati ma è giusto avere adesso gli aumenti che avremmo avuto senza il blocco”, spiega a La Stampa Carlo Ferraro, docente del Politecnico di Torino, coordinatore del Movimento per la dignità e della docenza. Una situazione che non è più tollerabile per 5.444 professori e ricercatori di 79 università, circa il 10% del corpo accademico.
Ma di chi è la ‘colpa’?
Il primo a decidere il blocco degli scatti fu Silvio Berlusconi. Il blocco fu confermato anche dai governi Monti e Letta. Renzi lo propose con la legge di stabilità per il 2015, mentre per l’anno seguente cambiò rotta e decise che era il momento di sbloccare gli stipendi nelle università dal 2016. Ma riportò in vigore la legge precedente che lega l’adeguamento degli stipendi al calcolo dell’Istat sugli aumenti medi delle retribuzioni degli altri dipendenti pubblici. E siccome non c’erano stati rinnovi dei contratti del pubblico impiego, mancavano aumenti a cui riferire quelli delle università”.
Il turnover e i tagli alla ricerca
Parallelamente alla questione degli stipendi, gli insegnanti chiedono anche una programmazione di nuovi ingressi nel personale docente ordinario e tra i ricercatori. Dal 2009 al 2015 si è assistito a un calo del numero del corpo docente delle università dovuto “ai provvedimenti di blocco del turnover messi in campo dal governo Berlusconi insieme con il taglio dei finanziamenti pubblici al sistema universitario. E’ una diminuzione netta del 12%, da 62.753 docenti a 54.977”. Nello stesso periodo sono diminuiti i professori ordinari rispetto agli associati e ai molti ricercatori. Non ultime le proteste sulla quota di Pil dedicata alla ricerca e allo sviluppo che vede l’Italia arrancare al 18esimo posto tra i paesi Ocse.
Le tappe della protesta
L’agitazione non è proprio un fulmine a ciel sereno: già nel 2014 i docenti avevano inviato una lettera al governo firmata da oltre 10mila professori per denunciare la loro situazione. A questa, come testimonia il sito del Movimento per la dignità della docenza, sono seguite numerose missive di protesta destinate anche al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Nel 2015 fu la volta dello sciopero bianco.
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