È ancora presto per fare analisi dettagliate sui risultati delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria. Lo scrutinio procede infatti con grande lentezza: alle 3 di notte, dopo 4 ore dalla chiusura dei seggi, lo spoglio doveva ancora concludersi in oltre la metà delle sezioni dell’Emilia Romagna, mentre solo un quinto delle sezioni calabresi aveva comunicato i dati definitivi. Ma anche così, basandoci quasi solo sui dati delle proiezioni, è possibile individuare numerose “lezioni” da questo voto.
Il “fattore Bonaccini"
Partiamo dall’Emilia Romagna, di gran lunga la sfida più attesa, caricata nelle scorse settimane – ma forse è più corretto dire mesi – di un significato nazionale che è andato ben oltre l’effettiva posta in palio (cioè il governo della Regione). L’esito di questa sfida non era scontato, ma è stato infine netto: il governatore uscente Stefano Bonaccini (PD) ha vinto, con un risultato che alla fine potrebbe anche superare il 50% dei voti, staccando nettamente la sua sfidante principale Lucia Borgonzoni (Lega).
La prima lezione di queste elezioni è proprio il “fattore Bonaccini”: una candidatura solida e credibile, che si è rivelata molto più competitiva delle liste in suo sostegno. Non è un caso se il distacco tra Bonaccini e Borgonzoni è molto superiore a quello che c’è tra la coalizione di centrosinistra e quella di centrodestra. Bonaccini è riuscito certamente ad intercettare molti elettori esterni al perimetro della sua coalizione: ma, soprattutto, ha anche fatto il pieno tra quegli elettori che hanno espresso una preferenza solo per un candidato presidente, senza votare anche una lista.
Il bicchiere mezzo pieno del PD
La vittoria in Emilia Romagna è quindi, senza dubbio, in primis una vittoria di Bonaccini. Ma da questa tornata esce a testa alta anche il Partito Democratico. Nonostante la presenza di una lista civica del presidente forte, il PD dovrebbe essere riuscito nell’impresa di tornare il primo partito in Emilia-Romagna, primato che gli era stato tolto prima alle Politiche 2018 dal Movimento 5 Stelle e poi, alle Europee 2019, dalla Lega. E proprio tra PD e Lega i primi dati lasciavano intravedere un testa a testa per la palma di primo partito.
Il dato del PD, ben superiore al 30%, sorprende non solo perché gli consente di riconquistare un primato in modo forse un po’ inaspettato – visti i precedenti elettorali più recenti – ma anche perché è migliore di quello ottenuto meno di un anno fa alle Europee, prima della scissione di Italia Viva e dell’addio di Calenda (che anche in Emilia-Romagna raccolse molte delle preferenze con cui fu eletto europarlamentare per la lista PD-Siamo Europei).
Ancora più sorprendente è il dato della Calabria, dove il PD secondo le proiezioni è primo partito nonostante la vittoria (netta) della candidata del centrodestra Jole Santelli. In questo caso, se il PD si confermerà primo partito della Regione (un primato privo di effetti concreti, e che dovrebbe essere conseguito con circa il 15% scarso dei consensi) sarà grazie al fatto che i voti nella coalizione di centrodestra si sono quasi perfettamente distribuiti tra le liste della coalizione, con Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia vicinissimi e tutti intorno al 10%.
L'occasione mancata per la Lega
Se il bicchiere è mezzo pieno per il PD, è mezzo vuoto per la Lega. Il partito di Matteo Salvini ha perso un’occasione storica, quello di portare per la prima volta il centrodestra al governo della più grande delle “regioni rosse”, perdendo anche la palma di primo partito ottenuta alle Europee di maggio. In quanto principale partito del centrodestra, la Lega registra certamente quella di Jole Santelli in Calabria come una vittoria, ma con un retrogusto amaro: quando sarà terminato il conteggio dei voti, non è affatto detto il primo partito del centrodestra calabrese sia quello di Matteo Salvini, potrebbe benissimo essere Forza Italia, oppure Fratelli d’Italia, o persino la lista civica della presidente Santelli.
Soprattutto – e questo sarà un argomento di dibattito che verrà abbondantemente sviscerato nelle prossime settimane – Salvini e la Lega hanno mancato l’obiettivo di usare una vittoria in Emilia Romagna per dare una “spallata” al governo nazionale e chiedere nuove elezioni politiche anticipate.
La sconfitta senza appello del M5s
Il bicchiere è invece vuoto senza possibilità di appello per il Movimento 5 Stelle. Orfano da pochi giorni del suo (ex) leader Luigi Di Maio, appena dimessosi da capo politico del partito, il M5S è rimasto “schiacciato” da una competizione che si andata via via bipolarizzando tra centrosinistra e centrodestra, non solo in Emilia Romagna ma anche in Calabria, dove il centrosinistra aveva scelto come candidato Pippo Callipo.
Il risultato negativo del M5s è particolarmente doloroso sia in Emilia Romagna, dove il Movimento ottenne i suoi primi risultati importanti: giusto 10 anni fa ci fu il sorprendente 7% raccolto dall’allora candidato grillino Giovanni Favia in Emilia-Romagna, e fu sempre in una città dell’Emilia Romagna, Parma, che due anni dopo il M5s elesse il suo primo sindaco di un comune capoluogo, quel Federico Pizzarotti che poi – come Favia – sarebbe stato in seguito espulso dal Movimento. In Calabria il M5S ha sperimentato, per la prima volta nella sua storia, un’alleanza pre-elettorale con una lista civica: esperimento che si direbbe non riuscito, dal momento che il valore aggiunto di questa lista civica alla coalizione di Aiello si dovrebbe aggirare intorno all’1% e che questa coalizione potrebbe ritrovarsi addirittura al quarto posto, scalzato da quella del candidato civico Carlo Tansi.
La Calabria “banderuola” del vento nazionale
Dicevamo della Calabria: la “punta dello stivale” si conferma una Regione estremamente incline a sperimentare l’alternanza elettorale, dal momento che da ben 20 anni tutte le elezioni regionali hanno visto la vittoria di un candidato (e di una coalizione) di colore opposto a quello del presidente e della giunta uscenti.
Nonostante – o forse proprio a causa di – una certa marginalità rispetto alla politica nazionale, la Calabria ancora una volta premia l’area politica più forte a livello nazionale: così il Loiero e Oliverio hanno vinto nel 2005 e nel 2014, anni dei trionfi del centrosinistra prodiano e del PD renziano, così come Chiaravallotti, Scopelliti e oggi Santelli hanno vinto sfruttando il vento in poppa che aveva il centrodestra berlusconiano nel 2000 e nel 2010, e quello a trazione salviniana di oggi.
Le questioni aperte
Fin qui le lezioni “generali”, che questo voto ci consegna anche senza l’apporto di dati puntali e dettagliati. Rimangono molti altri elementi da indagare per apprezzare fino in fondo la portata di queste elezioni così importanti. Ad esempio, l’impatto del movimento delle Sardine: sarà interessante, ad esempio, capire se nei comuni dove si sono svolte le loro manifestazioni si è verificata una partecipazione al voto superiore, e quanto della vittoria di Stefano Bonaccini è dovuto – oppure no – a questa mobilitazione.
Un altro tema interessante è quello che riguarda il “cleavage” tra centro e periferia, ossia la differenza tra il comportamento di voto nei grandi centri e quello nelle zone più rurali. I dati finali ci forniranno certamente degli spunti di riflessione degni di analisi. L’impressione, in linea di massima, è che nella vittoria di Bonaccini in Emilia Romagna abbia avuto un ruolo anche la dinamica dell’affluenza, effettivamente superiore nei comuni maggiori (e in quelli immediatamente limitrofi alle: si veda il caso, emblematico, di Bologna).
Altre cose, in conclusione, si possono poi aggiungere a quelle già dette. Ad esempio, la buona prova fornita – anche questa volta – dai sondaggi pre-elettorali, che avevano correttamente individuato già da molte settimane la tendenza che vedeva Bonaccini davanti alla Borgonzoni. Nonostante la pressione dovuta a un appuntamento elettorale apertissimo e su cui erano puntati tutti i riflettori mediatici del Paese, gli istituti demoscopici hanno lavorato complessivamente piuttosto bene, indovinando il risultato finale sin dai primi dati di exit poll e proiezioni.