La nottata elettorale in Regno Unito non è ancora finita, ma si può dire che non è neanche cominciata. Infatti, se negli ultimi giorni si erano rincorsi sondaggi che mettevano in discussione la capacità dei Conservatori di ottenere una maggioranza solida, tutti i dubbi sono stati fugati con l’uscita dell’exit poll di Ipsos MORI.
Dai dati dell’exit poll era già chiara la vittoria a valanga dei Tories. I numeri (quasi) definitivi la riflettono in modo chiaro: con 5 collegi ancora da assegnare, i Conservatori dovrebbero vincere in 364 collegi su 650, la loro vittoria più netta dal 1987. In seconda posizione i Laburisti accreditati di 203 seggi – il risultato peggiore dal 1935 – seguiti dallo Scottish National Party con 48 e dai LibDem con 12.
Insomma, quasi 40 seggi al di sopra della soglia della maggioranza (fissata a 326) per Boris Johnson, che incassa un voto di fiducia importante sul tema centrale della sua campagna: Brexit. Proprio l’uscita dall’UE – pilastro dello slogan di Johnson, “Get Brexit done” – diventa la prima fra le chiavi di lettura più interessanti di queste elezioni.
La crescita dei conservatori a discapito dei laburisti, infatti, è avvenuta principalmente nei seggi in cui aveva vinto il Leave: il Labour ha perso un terzo dei suoi collegi pro-Brexit, mentre ha tenuto quasi il 90% di quelli dove aveva vinto il Remain. Se concentriamo solo l’attenzione sui collegi laburisti del 2017 in cui il Leave ha vinto con più del 65% le perdite sono ancora più pesanti, con circa la metà di questi seggi che passa ai Conservatori.
La maggior parte di queste perdite sono state localizzate nell’Inghilterra del Nord, in quella fascia che collega Newcastle con Liverpool. Un tempo era la zona più di sinistra del Paese, tanto che il Labour l’aveva ribattezzata “Red Wall”, il muro rosso, o “Heartland”, la terra del cuore. Ieri, dopo il disallineamento che ha seguito la Brexit, diverse roccaforti laburiste hanno resistito, ma moltissime altre sono state espugnate dai Conservatori.
La sconfitta laburista ha avuto una conseguenza immediata, cioè l’annuncio delle dimissioni, anche se non prossime, di Jeremy Corbyn. Nel discorso tenuto nel cuore della notte alla proclamazione della sua conferma nel seggio di Islington North a Londra, il segretario Labour ha dichiarato che non guiderà il partito in future elezioni, prefigurando un passo indietro “dopo un periodo di riflessione”. Corbyn paga l’insuccesso della sua strategia: cercare di spostare l’attenzione da Brexit verso la sanità e i temi sociali. Un’impresa difficilissima in un paese ancora profondamente diviso sul tema dell’Europa.
La Scozia verso un nuovo referendum?
Oltre ai conservatori, l’altro vincitore delle elezioni di ieri è lo Scottish National Party, che ha conquistato 48 seggi scozzesi su 59 riportandosi vicino ai livelli record del 2015 quando ne aveva vinti 56. Il recupero (+13) rispetto alle elezioni del 2017 arriva non solo recuperando dal Labour, ma anche strappando ben 6 seggi ai Conservatori, che hanno faticato in questa terra dove il Remain era stato egemone.
Un’altra vittoria chiave del SNP è nel seggio di East Dunbartonshire, a nord di Glasgow. Il nome non suona familiare, ma si tratta di un collegio importante: è quello di Jo Swinson, la leader dei Liberal Democratici, che è stata sconfitta di soli 149 voti. Si tratta di un fatto storico, perché era addirittura dal 1906 che il leader in carica di un partito importante non viene sconfitto nella propria circoscrizione.
La prova di forza del SNP potrebbe avere conseguenze pratiche molto importanti per il Regno Unito e per la Scozia. Con la Brexit ormai in vista, aumentano infatti sempre più le probabilità di un secondo referendum per l’indipendenza scozzese, dopo che nel 2014 una prima consultazione si era conclusa con la vittoria del No all’indipendenza per 55,3% a 44,7%. All’epoca, però, l’uscita del Regno Unito dalla UE era solo una remota minaccia, e in un nuovo voto in Scozia i risultati potrebbero essere molto diversi da cinque anni fa.
Il fallimento del tactical voting
Nonostante la debacle della loro leader, il risultato dei liberaldemocratici non è del tutto negativo, e a livello nazionale guadagnano più del 4% dei voti passando dal 7 all’11,2%. La buona crescita percentuale dei LibDem, a fronte del crollo (-7,9%) dei Laburisti, ci dà un’altra chiave di lettura delle elezioni di ieri: il fallimento del cosiddetto “tactical voting”.
Ma cos’è il tactical voting? In pratica, si trattava di un’indicazione di “voto utile” per gli elettori laburisti, nazionalisti scozzesi e liberaldemocratici, per sconfiggere i candidati conservatori. Questa avrebbe dovuto essere un’arma strategica importante per i partiti anti-Brexit contro i Conservatori, invece si è rivelata inefficace – se non addirittura controproducente. Per esempio, nel collegio di Kensington a Londra – vinto di appena 20 voti dal Labour nel 2017 – la crescita dei LibDem grazie al tactical voting ha portato all’opposto del risultato desiderato: il candidato conservatore ha sconfitto la parlamentare laburista di appena 150 voti.
Cosa aspetta il Regno Unito
Con la vittoria di Boris Johnson, non ci dovrebbero essere altri ostacoli nella strada verso la Brexit del 31 gennaio. Il processo più lungo sarà quello della transizione successiva, con la rinegoziazione dei singoli accordi commerciali che si prolungherà, almeno, per buona parte del 2020. La solida maggioranza parlamentare dei Conservatori, però, dovrebbe risolvere le eventuali complicazioni, almeno nella loro componente politica.