Da Mattarella a Casellati: cambia il palazzo (prima il Quirinale, ora Palazzo Madama) ma non cambia l’esito delle consultazioni, gli incontri con cui prima il Capo dello Stato e poi – dietro incarico “esplorativo” conferito da quest’ultimo – la Presidente del Senato provano a verificare se esista una maggioranza in grado di formare un governo.
Dopo un mese e mezzo dal voto del 4 marzo, siamo ancora in fase di stallo: né la prima coalizione (il centrodestra) né il primo partito (il Movimento 5 Stelle) sono vicini, anche solo lontanamente, alla maggioranza dei seggi, alla Camera come al Senato.
Occorre un accordo tra le parti, ma le parti non sono disposte a fare troppe concessioni: il M5S non fa passi indietro sul nome di Di Maio né sul veto nei confronti di Forza Italia; Salvini non vuole saperne di un governo dove non ci sia tutto il centrodestra, e non è disponibile a cercare un accordo col PD; e il PD continua nella sua posizione di Aventino, anche se negli ultimi giorni sono aumentate le voci disponibili a un dialogo con il M5S.
Come si traduce tutto questo nel consenso ai partiti? Di sicuro vediamo proseguire le tendenze che erano emerse fin dalle primissime settimane successive alle elezioni: si conferma il rafforzamento del M5S (anche questa settimana primo partito con circa il 34%) e soprattutto della Lega, oggi stimata al 20,7%. Perde leggermente terreno il PD, che scende sotto il 18% (17,6) e “rimbalza” leggermente verso l’alto Forza Italia (12,5%). Stabili tutti gli altri, con FDI al 4,1% e LeU sotto la soglia del 3, anche se di poco (2,8 per cento).
Questa settimana il dato “notevole” è che, grazie all’aumento della Lega e della sostanziale tenuta degli altri partiti della coalizione, il centrodestra sale oltre il 38%, sempre più vicino a quella soglia “psicologica” del 40% che rende allettante l’ipotesi di un ritorno alle urne per chi non voglia fare i conti con la ricerca di un compromesso così faticosamente (e, finora, inutilmente) inseguito nelle ultime settimane.
Ma cosa accadrebbe se si andasse a votare oggi? È realistico aspettarsi un cambiamento rispetto ai risultati del 4 marzo, visto che rispetto alle elezioni si sono registrate delle variazioni di una certa entità? Abbiamo provato a rispondere, applicando ai risultati reali in ciascun collegio della Camera le variazioni nazionali che si sono registrate rispetto al 4 marzo.
La risposta alla domanda è negativa. Nonostante il M5S abbia guadagnato quasi 2 punti e la Lega quasi 4 rispetto alle ultime elezioni politiche, la variazione in termini di seggi sarebbe molto poco significativa. Il centrodestra si fermerebbe a quota 277, ben distante di una quarantina di seggi dalla maggioranza (316). E dovrebbe comunque cercare un accordo col M5S, che a sua volta potrebbe formare una maggioranza anche con il PD, esattamente come oggi. L’unica differenza, politicamente rilevante ma ininfluente per la ricerca di possibili equilibri di governo, sarebbe la sparizione di Liberi e Uguali, che restando sotto il 3% perderebbero anche quei 14 seggi effettivamente ottenuti il 4 marzo.
La cosa interessante è che a livello di collegio uninominale le variazioni sarebbero minime: un paradosso, poiché in teoria è proprio nei collegi uninominali che dovrebbe agire la “leva” maggioritaria premiando in modo esponenziale i vincitori. Invece le variazioni maggiori si registrano nella distribuzione proporzionale del voto alle liste.
Tornare al voto sembrerebbe quindi una non-soluzione, come del resto suggerivano anche i precedenti più recenti a livello europeo. Non resta che sperare che le parti politiche giungano infine ad un accordo, magari partendo prima dai programmi e solo dopo ragionando sul nome del premier, come suggerito dal capogruppo leghista Centinaio.