Il prossimo 24 giugno 60 milioni di turchi si preparano ad eleggere il presidente della Repubblica e il Parlamento in elezioni anticipate che potrebbero avere un esito tutt’altro che scontato. Volute dal presidente della Repubblica Receep Tayip Erdoğan, a più di un anno dalla naturale scadenza elettorale di novembre 2019, per consolidare il suo potere in un periodo di crisi economica, le elezioni si svolgeranno dopo due anni di regime di leggi speciali introdotte a seguito del controverso tentativo di colpo di stato del 2016.
Le leggi speciali hanno portato in prigione diversi candidati dell’opposizione. Per esempio, il co-segretario del partito democratico di sinistra curdo (HDP) Selahattin Demirtaş parteciperà alle elezioni da dietro le sbarre. Il suo è il partito con più candidati in prigione, che non hanno potuto svolgere alcun tipo di campagna elettorale. La Turchia è il paese con più giornalisti in prigione del mondo. Si è molto parlato sulla stampa occidentale degli arresti di giornalisti, dell’epurazione di docenti universitari e, per ultimo, dell’acquisto di reti televisive da parte di sostenitori del presidente in carica. Una situazione di mancata libertà di stampa e di espressione che pregiudica la possibilità di condurre un’equa campagna elettorale. La novità è che, nonostante la posizione tutt’altro che imparziale dei media, l’esito elettorale non sembra così scontato.
Human Rights Watch ha pubblicato un report, il quale, oltre che evidenziare le difficoltà del contesto in cui si è svolta la campagna elettorale, sottolinea come i cambiamenti alla legge elettorale abbiano avuto un impatto nelle alleanze politiche. Il Parlamento ha cambiato la legge elettorale in marzo, proprio a ridosso delle elezioni: questo cambiamento prevede la possibilità di fare alleanze anche con partiti che non hanno raggiunto il quorum elettorale del 10%. Questo ha permesso al partito del presidente Erdoğan di allearsi con i nazionalisti di destra di MHP.
Se ad aprile i partiti dell’opposizione apparivano ancora divisi e poco inclini a un’alleanza, in questi ultimi mesi sono riusciti ad unirsi tutti in un fronte comune che sostiene il candidato Muharrem Ince, insegnante di fisica eletto parlamentare per cinque mandati. Ince, che rappresenta il partito nazionalista-repubblicano erede della tradizione kemalista (CHP) che aveva combattuto i curdi per decenni, ha fatto visita a Demirtaş, in prigione con diverse accuse da quella di terrorismo a quella di aver insultato il presidente. Quest’apertura gli ha assicurato il voto dei curdi, che si aggira attorno al 10%, e va ad aggiungersi al 20% di CHP. La coalizione che sostiene Ince è formata da quattro partiti. Il terzo è un partito più tradizionale, Saadet Partisi (il Partito della Felicità), un tradizionale partito religioso dal quale era nato l’AKP di Erdoğan che rappresenta il 2%, ma che potrebbe attrarre il voto religioso di qualche elettore scontento della deriva personalista di AKP.
La novità di questa tornata elettorale che potrebbe sottrarre una percentuale di voti imprecisata all’alleato di Erdoğan è l’YIY partisi (il Buon Partito) guidato da Meral Aksener, soprannominata “Asena”, una lupa mitologica. Ministro dell’interno nel periodo delle lotte contro i curdi nel 1996/97, Aksener ha fondato un partito nazionalista di centro scissionista di MHP e potrebbe raccogliere i consensi dei nazionalisti più moderati delusi da MHP e persino da CHP, oltre che piacere a donne e giovani. Sostenitrice del “No” nel referendum dell’anno passato, se vincitrice riporterà la Turchia a essere una Repubblica Parlamentare. La sua è una candidatura carismatica, tanto che stava per essere il candidato premier dell’intera coalizione. La figura di Ince, saldamente legata alla tradizione di Atatürk, ma proveniente da una famiglia religiosa, sembrerebbe, però, meglio rappresentare una Turchia pacificata e “meticcia” dove i confini tra partiti secolari e religiosi si fanno meno politici.
Tre milioni di turchi all’estero si sono già espressi. Alle ultime tornate elettorali il partito più votato in Italia è stato HDP, per via della massiccia presenza di rifugiati politici curdi. Vedremo come andrà questa volta. Difficile fare previsioni. “Si respira un desiderio di cambiamento”, ha dichiarato Ince durante la sua campagna elettorale itinerante nel sud del paese. Secondo il New York Times, i candidati sono a un testa a testa che li vede attorno al 50%. Lo stesso Erdoğan cita dati che sono ben lontani dai suoi risultati elettorali passati: dichiara di poter vincere al primo turno con una percentuale che potrebbe variare dal 51 al 55%. Secondo istituti di sondaggi indipendenti, Erdoğan sarebbe al 45,9% e i voti sommati dei partiti della coalizione dell’opposizione sembrano molto prossimi: 44,5. Considerando i cambiamenti nelle alleanze e la presenza di un nuovo partito è molto difficile che, con questo piccolo scarto, i sondaggi siano abbastanza precisi da predirre la vittoria dell’uno o dell’altro fronte. Secondo alcuni commentatori Erdoğan potrebbe vincere le presidenziali, ma il suo partito, AKP, potrebbe risultare in minoranza in Parlamento. A questo punto potrebbe decidere di indire nuove elezioni, mettendo però a rischio la sua poltrona presidenziale.
Passeggiando per le vie turistiche di Istanbul, sembra di vivere la metafora di questa trasformazione politica. Le attrazioni turistiche di Sulthanamet sono impacchettate in ristrutturazioni che non vedono una fine e visitate principalmente da turisti locali delle zone rurali o da turisti mediorientali; l’inefficienza dei controlli di sicurezza agli ingressi della metropolitana e la bolgia incontrollata che si affolla alle porte del palazzo Topkapi, dove c’è un unico poliziotto inesperto e i distributori automatici di biglietti non funzionano più, sono sintomatiche di una mancanza di efficienza e di controllo senza precedenti, oltre che di un isolamento internazionale.
L’immagine più significativa è però sempre quella di piazza Taksim dove due scheletri che rappresentano il passato che non passa e un futuro che non si è costruito si fronteggiano. Da un lato della piazza c’è il centro culturale dedicato ad Atatürk in demolizione, che rappresenta il passato riformista di occidentalizzazione operata da Mustafa Kemal, dall’altro la struttura di un’enorme moschea in costruzione. La piazza, una volta circolare, è informe e, su un lato, l’entrata al parco Gezi ha il cemento consumato e pieno di buche; sembra di essere in una cittadina rurale dell’Anatolia e non al centro pulsante del paese.