C’è qualcosa che suona paradossale nell’ultimo rapporto del ministero dello Sviluppo economico sullo stato di salute delle startup italiane. Crescono, crescono numericamente, siamo a quota 8.315, ed è il record di sempre nell’anno in cui per la prima volta, con ogni probabilità, registreremo un calo degli investimenti nelle startup. Un paradosso tutto italiano, che affonda le sue radici in quello che in Italia intendiamo per startup e cosa serve per la loro crescita.
I policy maker hanno fatto il loro lavoro, istituendo il registro delle startup innovative che consente alcuni vantaggi per le neoimprese: esonero dai costi camerali, dilazione dei termini per il ripianamento del capitale sociale in caso di perdita, disapplicazione della fiscalità sulle società di comodo e in perdita sistematica. Tutte misure che possono essere considerate meritevoli o meno, utili o meno (qui su Business Insider la madre di tutte le criticità contestate al ‘registro delle startup innovative’, giusto per farsi un’idea).
Ma quella normativa è indubbiamente qualcosa, ed è difficile negare che non abbia contribuito ad incentivare un tipo di impresa che in Italia aveva bisogno di un punto di partenza. Ma non è bastato. Lo sa lo stesso legislatore che, per voce di Stefano Firpo, che ha presentato la relazione lo scorso 19 dicembre dicendo: “Tutti si riempiono la bocca di open innovazione e 4.0, ma poi quando si tratta di investire in venture Capital tutti razzolano male”
“Tutti si riempiono la bocca di open innovation e 4.0 ma poi quando si tratta di investire in venture capital tutti razzolano malissimo” @stefanofirpo #startup
— Riccardo Luna (@RiccardoLuna) 19 dicembre 2017
In pochi sembrano avere idea di quanto importante siano gli investimenti nel capitale di rischio per far crescere una startup. Che, riprendendo una frase celebre di Paul Graham, fondatore di Y-Combinator, altro non è che un’azienda che cresce. Cresce forte. E per farlo generalmente ha bisogno di soldi. Tanti soldi, che brucia per poi in alcuni casi ripagare l'investimento 'x' volte quando va bene. È una scommessa, rischiosa ma che alla lunga ripaga. E i soldi, manco a dirlo, vengono generalmente dal venture capital, da società di gestione del risparmio o parte di grosse aziende che credono che investire in nuove aziende possa essere d’aiuto al proprio business. Se le startup sono gli organi di un corpo che chiamiamo ‘ecosistema’, il venture capital è il sangue che le irrora, le rende robuste, le fa crescere.
Il venture capital in Italia latita. Quest’anno saranno investiti forse poco più della metà dei 200 milioni investiti lo scorso anno. E vale la pena ricordare che 200 milioni non sono nulla. Nulla in confronto ai miliardi investiti in Francia, in Germania, in Spagna. In questi Paesi le startup danno lavoro a centinaia di migliaia di persone. In Italia i dipendenti delle startup (iscritte al registro) sono circa 10mila. Salvo Mizzi, già amministratore delegato di Invitalia Venture, oggi passato a Principia come General Partners da tempo parla di venture capital come di una ‘emergenza nazionale’.
Non esagera. In Italia dopo tante belle parole, convegni, discorsi tondi e carichi di aneliti all’innovazione come leva per il rilancio del sistema Paese, si è fatto poco, e si comincia a fare meno ancora. Il venture capital serve. Magari un domani sarà sostituito dalle Ico, le emissioni di moneta digitale per il finanziamento dei progetti (qui è spiegato perché potrebbe succedere) ma per ora rimane l’unico strumento che consente alle aziende innovative di crescere, con la finanza.
Senza capitali coraggiosi, giovani e #startups a rischio esodo. @CarloCalenda certifica anno zero #venturecapital come #emergenzanazionale - meno policy più fatti ( si salva per via ) pic.twitter.com/g0q1t6cflT
— salvo mizzi (@salvomizzi) 17 dicembre 2017
Perché qualche matto continua ancora a dire che serve il venture capital nonostante sembra cominci a farsi largo l’idea che del venture si possa fare a meno? La risposta è semplice: perché altrimenti potremmo anche evitare di parlare di startup. Potremmo dire: ok ragazzi, si è scherzato, dimentichiamo tutto e facciamo che in Italia replichiamo lo schema dei distretti e del piccolo ma bello nel mondo dell’innovazione.
Qui non si vuole asserire che è per forza di cose sbagliato, ma è una strada assai diversa da quello che 'Il modello Macron' sta facendo in Francia, che la banca pubblica di investimento sta facendo in Germania, che Barcellona e Madrid stanno facendo per attrarre investitori internazionali. Se è questa la ‘via italiana all’innovazione’ (circonlocuzione che non ho mai compreso fino in fondo), buon viaggio.
@arcangeloro
arcangelo.rociola@agi.it