Ho visto The Startup. Ho visto la rappresentazione cinematografica della storia di Egomnia e del suo fondatore Matteo Achilli. Ho visto il film chiedendomi qualcosa di complesso, forse impossibile: eliminare dal mio giudizio quello che sapevo sull’azienda, sui numeri, sulle polemiche che ogni volta che Achilli torna a far parlare di sé si levano immancabili. Non so se ci sono riuscito.
Chi conosce un minimo le startup, capirà subito che The Startup non è un film sulle startup. Non è The Social Network, il film su Mark Zuckerberg e Facebook (anche se un po’ ci somiglia). E non è nemmeno un film da cui un imprenditore può trarre qualche buono spunto, come The Founders, che racconta la nascita di McDonald’s.
E’ un film basato sulla vita di Matteo Achilli, un ragazzo che oggi ha 26 anni ma allora 19, usata come pretesto per raccontare la voglia di riscatto di una generazione. Chi lo conosce sa che ha da sempre puntato tutto sulla narrazione di sé. Sulla sua storia e sulla sua immagine, che ha curato in ogni dettaglio. E con enorme successo. Dal 2012 in poi ha convinto decine di giornali, tv e radio (non solo in Italia) che la sua storia era da raccontare. Giovane, romano, cresciuto nella borgata, figlio di un papà disoccupato e carico di voglia di riscatto sociale, ‘contro tutto e tutti’ fa un sito dove il merito di un candidato è solo il suo curriculum e non le spintarelle. Una storia perfetta nell’Italia che si racconta come terra di raccomandati e dei Neet. Una storia da film.
La 'startup' di Matteo Achilli è Matteo Achilli
Matteo Achilli con questa pellicola prodotta dalla Rai, e un libro edito da Rizzoli, probabilmente raggiungerà l'apice della sua notorietà. E sta già provando a sfruttare il momento ‘annunciando’ proprio in questi giorni un aumento di capitale, di cui però non si sa nulla se non che durerà due anni e che porterà il valore di Egomnia a un miliardo. Tanti auguri. Ma mentre i numeri della sua azienda rimangono per ora inchiodati (i bilanci disponibili dicono che l’azienda non cresce, ha lo stesso fatturato da 3 anni e un utile di qualche migliaio di euro) lui è diventato sempre più bravo a far parlare di sé. Dalle pagine dei quotidiani alle copertine dei settimanali, dalle copertine dei libri alle bacheche delle sale cinematografiche. Un corto circuito mediatico perfetto in cui i media hanno una responsabilità enorme (qui un post di uno che ne sa che spiega bene perché). Dimenticare i fatti per privilegiare le storie.
Nel vocabolario internazionale si definisce startup un'azienda (un business) capace di crescere, scalare, tanto e velocemente nel proprio mercato di riferimento. Altrimenti non si è una startup. Ma Achilli invece di far crescere la sua azienda è riuscito a scalare nel panorama dei media. Tanto e velocemente. Come una startup. Si è concentrato molto sul prodotto, come ogni bravo imprenditore fa. Ma il suo prodotto è lui.
A parlare di numeri e bilanci ci si sente dei fessi
“Io non volevo far parlare della mia azienda, voglio solo che la mia storia sia da esempio agli altri” ha detto Achilli. “Noi volevamo raccontare l’Italia dei giovani che si rimboccano le maniche quando tutti i giorni si racconta l’Italia dei bamboccioni” gli ha fatto eco D’Alatri. “Ho letto delle critiche a Matteo ma sono o invidiosi o figli di papà” ha chiosato Luca Barbareschi, che ha prodotto il film. Fine della storia.
In questo quadro ci si sente dei fessi a contestare numeri e bilanci. A che serve farlo? Non al regista, Alessandro D’Alatri, che ha voluto raccontare la voglia di riscatto di un ragazzo di borgata. Non al fondatore, che della sua azienda non parla nemmeno in conferenza stampa preferendo concentrarsi sulla sua storia personale. E nemmeno a chi quel film lo vedrà, perché voglia di riscatto e meritocrazia a parte, la storia si interrompe (spoiler) con Egomnia che è meno di una versione beta, piuttosto fallimentare, piena di bug e codici corrotti, con il suo fondatore che riscopre l’importanza dei valori che la dissolutezza della Milano dei bocconiani gli ha fatto dimenticare.
L'hype sulle startup è diventato un'opera d'arte. Ed è imploso
Achilli ha compiuto il suo capolavoro. Ha smesso di raccontarsi come imprenditore ed è diventato la sua storia. Quella di uno che alla fine ci prova. E chi se ne frega di come va a finire. Un film su una startup, per il senso corrotto che la parola startup ha assunto in Italia, "il progetto di un ragazzino e un computer", non poteva che essere fatto su di lui. E' solo con lui che l’hype mediatico sulle startup poteva arrivare al suo massimo compimento: diventare un'opera d'arte. Ed implodere. E’ già imploso. Non ci credete? Guardate i titoli dei giornali il giorno dopo la presentazione. Quelli seri sono scettici, qualcuno ci casca ancora, ma è poca roba. Perché il film sarà pure carino, ma la bolla mediatica è esplosa.
In questa storia nessuno avrà danno. Non lo avrà chi in Italia fa impresa con il digitale e fattura (di loro forse si comincerà a parlare per quello che sono: aziende, non ragazzini con un computer). Non lo avranno gli investitori istituzionali (quelli che conosco io vedono idee, team e potenziale di crescita, non pellicole). Non lo avrà chi vuole fare startup, ché dal film non ci capirà nulla visto che di impresa non si parla, ma al massimo potrà ispirare qualche ragazzo a mettere su un "Airbnb per…“.
E in tutto questo, scusate, non riesco a vederci nulla di male. Alla fine The startup, la storia di Matteo Achilli, io l'ho vista come un film. Un film carino.