The Chosen One, il prescelto. Il 18 febbraio del 2002, Sport Illustrated decise di dedicare la copertina a un giovanissimo giocatore di Akron, Ohio. Quel titolo, allora forse esagerato, si dimostrò essere profetico. Quel ragazzo si chiamava LeBron James, aveva quasi 17 anni, e giocava nella squadra della sua High School, la Saint Vincent-Saint Mary. Una scuola cattolica e privata. Mancava un anno alla sua eleggibilità per il draft NBA che gli avrebbe permesso, saltando il college, di giocare direttamente con quelli “del piano di sopra”. Quelli già grandi, quelli già famosi. Quelli che guardava giocare e a cui cercava di rubare i segreti per poi, un giorno, poterne raccogliere l’eredità. Micheal Jordan, al tempo, indossava ancora la canotta dei Washington Wizards, e continuava a calcare i parquet della lega nonostante i suoi 39 anni. Kobe Bryant, allora ventiquattrenne, si apprestava a entrare nella storia del gioco, vincendo il suo terzo titolo consecutivo con la maglia dei Los Angeles Lakers.
La copertina di Sport Illustrated venne anticipata da una foto, scattata il 30 gennaio, all’interno della Gund Arena di Cleveland. LeBron, fuori dallo spogliatoio della squadra ospite, aspettava di incontrare il suo mito, Micheal Jordan. La stretta di mano tra i due, considerato uno dei momenti più importanti della storia della NBA, venne paragonata dallo stesso magazine americano a quella tra Bill Clinton e John Fitzgerald Kennedy, nel 1963. Dieci anni dopo quella copertina, Sport Illustrated, invitò alcuni giornalisti a raccontare alcuni momenti salienti della vita di LeBron. Grant Wahl, ad esempio, raccontò di come il giovane cestita venne invitato, l’estate precedente a quella foto, agli allenamenti segreti che Jordan faceva abitualmente con alcuni “amici” professionisti. James, però, era l’unico “scolaro” a partecipare a quelle feste esclusive. A 17 anni, inoltre, aveva già incontrato molti altri giocatori, da Antoine Walker a Tracy McGrady, da Micheal Finley a Jerry Steckhouse. E aveva già i pass per il backstage per il suo artista rapper preferito. Un certo Jay-Z.
L’emozione di una città
Una grande emozione accompagnò il draft NBA del 2003. A Cleveland spettava la prima scelta assoluta. Dopo un’annata disastrosa, chiusa all’ultimo posto nella Eastern Conference, l’arrivo di LeBron James, figlio dell’Ohio, era vissuto come la panacea che avrebbe curato i mali sportivi della città. Una città che, in senso dispregiativo, era chiamata da molti americani “The Mistake on the Lake” (L’errore sul lago) e che non era certamente celebre per la sua bellezza. Ma tanti già credevano che il prescelto avrebbe cambiato il corso della Storia. La bacheca dei Cavaliers era tristemente vuota: zero titoli in 32 stagioni. Ma neanche le altre squadre cittadine se la passavano meglio. L’ultima festa, a Cleveland, era datata 1964, con il Superbowl vinto dai Brown. In quel draft, peraltro, ci sarebbero stati altri nomi che avrebbero intrecciato la sua storia. Dwayne Wade e Chris Bosh su tutti. Un anno speciale, destinato a cambiare regole e gerarchie all’interno della Lega.
Gli inizi e l’addio
Che qualcosa fosse cambiato nella NBA lo si vide fin da subito. Nelle prime stagioni, LeBron non è ancora “King James”. Deve prendere le misure a un basket che è molto più fisico, sporco, difficile da interpretare. E poi deve combattere lo stress di avere sempre gli occhi addosso. Dei tifosi, degli analisti, degli avversari. Essere il prescelto, insomma, porta i suoi guai. Ma la sua crescita è costante e repentina. Così come quella dei Cavaliers che, nel 2006, tornano finalmente ai playoff. Di fronte però ci sono i Pistons che in quegli anni dominano l’Eastern Conference. James e compagni vendono cara la pelle ma alla fine, in gara 7, cedono. L’anno dopo arriva l’occasione della rivincita. LeBron è reduce da una stagione devastante.
Ormai è uno dei giocatori più forti della NBA. Nei playoff del 2007 anche Detroit si arrende. In gara 5 (sul 2-2) James segna 30 punti tra ultimo quarto e overtime. Reggie Miller, ex campione e commentatore, parlerà di prestazione “jordanesca”. Il paragone, ora, sembra calzante a tanti. Cleveland è a un passo dal titolo e la città ribolle di speranza. In finale però arrivano 4 sberle pesantissime. San Antonio, quella di Duncan, Ginobili e Parker, è troppo forte e preparata. Soprattutto in difesa, guidata dalla panchina da un maestro come Popovich. Il campione è in gabbia, le sue statistiche calano. Il cappotto è duro da digerire. E segnerà gli anni successivi. LeBron diventerà sempre più forte macinando numeri e record. Ma Cleveland non vince. Mai. Non gioca neanche più una finale perdendo nei playoff con squadre come Boston e Orlando.
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Essere il più forte senza vincere nulla è come non aver giocato mai. LeBron lo sa bene: “Ammiravo Jordan perché non aveva paura di nulla. Io ho paura solo del fallimento”. Ha già 26 anni e la frustrazione è aumentata, anno dopo anno, da portare allo strappo definitivo. Il figlio dell’Ohio, dopo sette anni infruttuosi, decideva così di lasciare la fredda Cleveland per l’assolata Florida. A Miami trova Wade e Bosh. Compagni di draft e di sogni. A Cleveland non la prendono bene. Le maglie di James vengono bruciate in piazza. Da osannato Re, King James è passato a essere il grande inganno, la delusione più grande. Anche dal suo presidente, Gilbert, arriva una lettera pesantissima che lo addita come traditore. Ma la decisione ormai è presa.
Miami e il ritorno da “figliol prodigo”
Alla fine della prima stagione la gioia dei supporter dei Cavaliers è seconda solo a quella di quella dei Dallas Mavericks. La voglia di vittoria di LeBron si interrompe in finale contro Nowitzki e Kidd. Per l’ennesima volta è additato come “incapace” di portare alla vittoria la propria squadra. Un destino che, fino a quell’anno, aveva condiviso con il tedesco. Stavolta non c’è neanche l’alibi della debolezza dei compagni “non all’altezza". L’estate successiva è forse la più difficile per il cestista di Akron: ripartire ancora una volta come il perdente che non aveva ancora capito cosa volesse dire essere un campione è una vera mazzata.
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Ma quella sarà l’ultima vera delusione di una carriera già straordinaria. Gli Heat vincono le successive due stagioni e James scaccia via tutti i fantasmi e tutte le accuse. O almeno quasi tutte. Sullo sfondo ci sono ancora gli insulti dei suoi tifosi a Cleveland. LeBron sa di aver coronato il suo sogno. I Cavaliers no. Il suo desiderio ora è rimediare agli errori del passato. Il figlio dell’Ohio è pronto per tornare a casa. E per farlo scrive una lettera aperta ai suoi tifosi che lo riabbracciano come se non fosse successo nulla: “La lettera di Dan Gilbert (il presidente dei Cavs, ndr), i fischi dei tifosi di Cleveland, le maglie bruciate sono state cose difficili da digerire per me. Le mie emozioni erano ancor più contrastanti. Era facile dire “Ok, non voglio più aver nulla a che fare con questa gente”, ma poi ho pensato anche all’altra faccia della medaglia. Come mi sarei sentito se fossi stato un ragazzino che seguiva un atleta che mi spingeva a far sempre meglio nella mia vita e che all’improvviso se ne va? Come avrei reagito?”.
La pace è sancita anche se LeBron James sa di dover conquistare il suo pubblico sul parquet: “Nel Nordest dell’Ohio nessuno ti regala niente, te lo devi guadagnare. Devi lavorare per ciò che hai. Sono pronto ad accettare la sfida, torno a casa”.
Il titolo e la nuova partenza
In questa storia c’è il lieto fine. LeBron James tredici anni dopo quel draft mantiene la sua promessa. I Cleveland Cavaliers, nel 2016, diventano campioni NBA. Per la prima volta nella loro Storia. Vincono (4-3) recuperando da una situazione quasi disperata (1-3). Nessuno aveva mai compiuto una rimonta simile in finale. James è il miglior giocatore per punti, rimbalzi, assist, palle recuperate e stoppate. Nelle ultime 3 partite segna 109 punti, più di quaranta in gara 5 e 6. In gara 7, quella decisiva, realizza una tripla doppia (27 punti, 11 rimbalzi e 11 assist). È il terzo nella storia del gioco a riuscirci. Il suo grido di gioia, “Cleveland, questo per te”, pronunciato alla Oracle Arena, alla fine dell’ultima sfida contro i Golden State Warriors, spezza l’incantesimo di un’intera città. Un trofeo, che sembrava maledetto, portato a casa dal figlio prodigo, nato per riscrivere il destino di un’intera franchigia.
E forse è proprio per questo che ora, dopo altri tre anni, James è pronto a ripartire. A Miami è diventato un vincente. A Cleveland, un eroe. Ora deve consacrarsi come leggenda. E la strada che conduce alla gloria passa per Los Angeles. Ad attenderlo ci sono i derelitti Lakers, incapaci di rialzarsi dopo la partenza del loro prescelto, Kobe Bryant di cui ora James è a caccia dell’eredità. Poco male se in quella lettera rivolta ai tifosi dei Cavs aveva anche detto che: “Ho sempre creduto che sarei tornato a Cleveland e avrei chiuso lì la mia carriera, solo che non sapevo quando sarebbe successo”. Insomma, forse chiuderà la sua incredibile storia lontano dall’Ohio ma stavolta, di sicuro, nessuno brucerà le sue maglie o lo chiamerà traditore. La profezia che ha accompagnato il prescelto si è compiuta e gli eroi, si sa, sono sempre alla ricerca di nuove imprese da compiere.