"I risultati passano. I risultati non contano. Della vita io ricordo non i risultati ma le persone con cui sono stato assieme. Quelle non si dimenticano mai". In un video registrato all’esterno di una osteria, lo scorso giugno, davanti ad amici e collaboratori, Alberto Bucci ha consegnato il suo pensiero sulla vita e sullo sport alle persone “che avrebbe per sempre portato nel cuore”.
Per fortuna, e grazie alla rete, quel discorso sta arrivando a un numero enorme di persone, volando di bacheca in bacheca, di social in social. Un privilegio per tutti quelli che che, come il sottoscritto, ne hanno potuto apprezzare solo il suo stile, e il suo genio, a bordo campo, vicino alla panchina. Al massimo durante qualche programma in televisione. Sì, perché oltre a essere il presidente della Virtus Bologna, Bucci è stato uno dei più grandi allenatori della storia italiana. Un gentiluomo di sport, schietto e diretto come pochi. Si è spento qualche giorno fa, a settant’anni, dopo una lunga battaglia contro il male peggiore e a cui si è dovuto arrendere.
Se dici Bucci, pensi Bologna
La sua carriera era iniziata a venticinque anni, l’età in cui di solito uno pensa solo a giocare. Lui, no. In testa aveva schemi, allenamenti, parole di motivazione, voglia di vincere. Sulla panchina della Fortitudo Bologna, nei primi anni’ 70, fece il suo esordio. Poi, di seguito, venne accolto da altre piazze come Rimini, Fabriano, Livorno e Verona. E poi quella Virtus, l’altra squadra di Bologna, di cui diventerà il simbolo. Prima in panchina, da eroe, poi come Presidente, fino all’ultimo giorno. E se anche i risultati passano, come ricorda lui stesso nel video, a volte fa bene ricordarli.
Tre scudetti con la Virtus (compreso quello della stella), quattro Coppe Italia, una Supercoppa Italiana, tre promozioni dalla seconda serie alla prima. E insieme a questo ricco palmares, il ricordo di tutti: giocatori, collaboratori, tifosi (anche avversari), addetti ai lavori, giornalisti. Cercate, non troverete per lui nessuna voce avversa, nessuna critica o polemica.
"Se ogni volta cancelli, poi devi riniziare daccapo"
Bucci non era un coach qualunque. Era un punto di riferimento per tanti giocatori e per moltissimi colleghi. E non solo allenatori di pallacanestro. Carlo Ancelotti lo rispettava e lo ammirava così tanto da chiedere, la scorsa domenica, di non parlare dopo Sassuolo-Napoli. Davide Cassani, allenatore della nazionale di ciclismo, lo invitò a parlare al gruppo in partenza per le Olimpiadi di Rio. L’uomo giusto per motivare la squadra in vista di quell’impegno. Non è uno caso se Viviani, da quella spedizione, tornò con una medaglia intorno al collo.
Cosa ci lascia Alberto Bucci
Quel video io l’ho ascoltato e riascoltato. E mi sono convinto che sia come un timeout. Parlo di quella sospensione breve che un allenatore chiama, durante il match, per poter parlare con la squadra. A volte con una lavagnetta in mano per disegnare giochi e schemi. A volte solo per guardare i suoi giocatori occhi negli occhi, per dare e chiedere fiducia, per accomiatarsi dopo una battaglia.
Fuori da quell’osteria, Alberto Bucci è come se avesse chiamato il suo ultimo timeout. Quello che, di solito, a pochi secondi dalla fine, serve a ringraziare chi, in campo, ha provato a dare tutto. Fino alla fine. In quel momento non esiste tabellone, non esiste punteggio, non esiste risultato. Si ascolta in silenzio, si ringrazia, ci si abbraccia. Solo le parole restano. E la frase che mi resterà nella mente di quel video, più di ogni altra, è questa: ”Noi siamo in un mondo in cui cerchiamo sempre il colpevole. E poi, trovato il colpevole, gli altri sono improvvisamente tutti innocenti. Mentre ricordate che in un gruppo siamo tutti colpevoli". Se a partire da oggi provassimo a smettere di cercare i nostri presunti colpevoli, riusciremmo forse a giocarsi quella meravigliosa partita che si chiama vita.