Il 29 maggio del 1919 fu il giorno in cui si raccolse per la prima volta la prova ufficiale che Einstein avesse visto giusto con la sua teoria generale della relatività, che a quel tempo non godeva ancora di molto credito.
Sir Arthur Eddington, in una campagna osservativa al largo della Guinea spagnola (in realtà, le spedizioni furono due, l’altra in Brasile) legata allo studio di una eclissi solare totale, dimostrò che la presenza di un oggetto di grande massa come il Sole incurva la geometria dello spaziotempo in cui esso è immerso, deviando i raggi di luce provenienti dalle stelle poste dietro di esso e passanti in vicinanza del suo bordo, esattamente come prevedeva la teoria.
Cento anni dopo, abbiamo per la prima volta una prova “visibile” diretta della presenza di materia degradata nella sua forma più estrema, il buco nero, un pozzo gravitazionale prodotto da un oggetto talmente massiccio da provocare la chiusura totale delle linee dello spaziotempo attorno ad esso e non permettere nemmeno alla luce di emergerne.
Si ritiene che quasi tutte le galassie, almeno quelle di forma ellittica, ospitino al loro centro un grande buco nero con una massa di molte centinaia di migliaia di volte quella solare, se non addirittura di milioni di masse solari (buchi neri supermassicci). Non fa eccezione la nostra Via Lattea, che ne nasconderebbe uno al suo centro nella direzione della costellazione del Sagittario, presumibilmente coincidente con l’intensa sorgente di onde radio chiamata Sagittarius (Sgr) A*.
Il progetto Event Horizon Telescope ha puntato otto radiotelescopi situati in varie città del mondo verso il Sagittario A*. Uno degli obiettivi è verificare se la teoria relatività di Einstein sia corretta
C’è una semplice relazione diretta fra la massa dell’oggetto e il raggio all’interno del quale essa dovrebbe essere racchiusa (raggio di Schwarzschild) per determinare la formazione di un buco nero. Per sfuggire all’attrazione gravitazionale di un qualsiasi corpo celeste, occorrerebbe raggiungere una velocità limite corrispondente a quella che viene chiamata “velocità di fuga”. Per il nostro pianeta, tale velocità si attesta intorno agli 11 chilometri al secondo. Per un buco nero, la velocità di fuga equivarrebbe invece proprio a quella della luce: 300 000 chilometri al secondo. È questo il motivo per cui alcun segnale riuscirebbe a uscir fuori da questo pozzo gravitazionale. La superficie che delimita e separa lo spazio esterno da quello interno di tale oggetto viene chiamata “orizzonte degli eventi”.
E’ praticamente impossibile, per quanto detto, poter rilevare cosa ci sia al di là di questo orizzonte. Ma un buco nero è vorace, a causa della enorme forza attrattiva che lo contraddistingue, e sfortunati oggetti che dovessero trovarsi nelle sue vicinanze subirebbero effetti mareali devastanti tali da produrre quella che viene chiamata “spaghettificazione”. In un sistema binario in cui una stella si trovasse a ruotare attorno a un buco nero, la materia di cui essa è composta verrebbe risucchiata da quest’ultimo finendo per accrescere un disco in rotazione sull’orizzonte degli eventi formato da gas che emetterebbero, per via del fortissimo surriscaldamento (fino a temperature dell’ordine di milioni di gradi), una intensa radiazione di raggi X (come avverrebbe in oggetti chiamati AGN, nuclei galattici attivi, che emettono uno spettro continuo di radiazione, dalle onde radio ai raggi X).
Fig.1 Disco di accrescimento attorno a un buco nero in un sistema binario
Finora, è stato possibile evidenziare la presenza di questi corpi celesti supermassicci in modo indiretto, grazie allo studio delle sorgenti X intense (o di onde radio). Oppure osservando il moto peculiare di alcune stelle in prossimità di oggetti che si presume possano corrispondere a grandi buchi neri estremamente massicci. Proprio come quello che dovrebbe occupare il centro della nostra galassia in corrispondenza di Sgr A*, la cui massa è valutata nell’equivalente di circa quattro milioni di masse solari.
Di una stella in particolare, chiamata S2, sono state individuate la traiettoria e la velocità orbitali corrispondenti a un moto che si chiude attorno a qualcosa di non visibile. Ma è proprio la sua velocità a rendere conto della massa dell’oggetto nei pressi del quale essa avvolge la sua rivoluzione orbitale: nel punto più vicino all’ipotizzato buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, essa è tale (oltre 7000 chilometri al secondo! Per confronto, il nostro pianeta, nel punto della sua rivoluzione più vicino al sole raggiunge una velocità massima di poco più di 30 chilometri al secondo) che se corrispondesse alla propulsione di un razzo partito dalla Terra e spedito su Venere (alla sua minima distanza), esso potrebbe raggiungere quel pianeta in meno di due ore! E stiamo parlando non di una razzo bensì di una stella...
Fig. 2 Traiettoria della stella S2 al centro della nostra Via Lattea, nei pressi di Sgr A*.
Che cosa manca ancora a questa raccolta di “pistole fumanti”? La prova “visibile” e diretta dell’esistenza dell’enorme buco nero al centro della nostra galassia.
E la notizia di questa foto del secolo è stata data oggi, a distanza di cento anni dalle immagini dell’eclisse solare che decretarono il successo della teoria generale della relatività! A quel tempo, la sua correttezza fu verificata su una scala di deformazione relativamente piccola (in prossimità del nostro Sole). Oggi abbiamo la prova che anche nella sua degenerazione più estrema, la descrizione della deformazione dello spaziotempo segue ciò che è previsto da quella teoria. Dopo la conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali, raccogliamo un’ulteriore verifica dell’esattezza di questa mirabile teoria e della potenza della sua matematica.
Storicamente, c’è sempre stata infatti una paura sotterranea che i buchi neri potessero rappresentare solo un’astrazione matematica, un esempio del fatto che la matematica di quella teoria potesse non essere adeguata alla descrizione di una “singolarità” dello spaziotempo. Adesso, quell’astrazione matematica è stata osservata, fotografata, registrata. La teoria della relatività generale ha cent’anni ma è come se ne avesse ancora uno! Potenza della... relatività del tempo!!
Ci si dovrebbe domandare: ma se si è detto che un buco nero è impossibile da osservare, come si è riusciti a realizzare questa foto del secolo?
Ciò che si è infatti osservato non è il buco nero in sé ma l’”involucro” che lo racchiude, la parte esterna di quell’orizzonte degli eventi che separa il visibile dall’invisibile, dove spiraleggiano gas e polveri risucchiati da sfortunati corpi celesti che – superando quel limite – verranno poi fagocitati dal mostro invisibile.
È questo si è ottenuto analizzando due anni di raccolta dati ottenuti dal consorzio EHT, Event Horizon Telescope negli anni 2017 e 2018, basati sulle campagne osservative di una rete di otto radiotelescopi distribuiti in tutto il pianeta e collegati fra loro nella ricerca per mezzo di un sistema di calibrazione sofisticatissimo al fine di ottenere la risoluzione necessaria allo scopo.
Già nel 2017 se ne parlava (è stato il mio primo articolo in questo blog, del 31 marzo, cui rimando per eventuali approfondimenti). Beh, adesso quella parentesi potrà essere eliminata!
Certamente non sarà solo una “bella foto” da conservare magari in un poster appeso a una parete. L’aspetto straordinario di questo risultato raggiunto è legato sì a una nuova conferma di quanto sia potente la teoria generale della relatività, ma risiede anche nella possibilità di utilizzare un altro strumento di indagine nella filosofia della cosiddetta astronomia multimessaggero.
Mi piace pensare che forse un giorno riusciremo a fotografare anche l’evaporazione di un buco nero, illuminando così la memoria di un altro grande pensatore, Stephen Hawking.