C’era una volta un campione. Un pugile mulatto che non aveva rivali nel Vecchio continente, che parlava perfettamente quattro lingue, che era il beniamino del pubblico di mezza Europa. Che era italiano, romano, e che nessuno ricorda perché Mussolini decise di cancellare la sua impresa sportiva nel nome dell’italianità.
Un mito della razza che non apparteneva al nostro popolo ma che il fascismo adottò volentieri dal vicino alleato nazista. In attesa di trovare il modello della razza italica, quel Primo Carnera che, a ben guardare, di italico aveva ben poco essendo un gigante altro due metri. Ma almeno era bianco. Il campione mulatto si chiamava Leone Jacovacci (cognome assai italico e fascista) e la sera del 24 giugno 1928 allo stadio Nazionale di Roma, davanti a quasi 40.000 spettatori e in collegamento radio con le città d’Italia, sconfisse il ‘toro fascista’ Mario Bosisio, laureandosi campione europeo dei pesi medi.
Uno smacco per Mussolini che non poteva essere rappresentato nel mondo da un atleta così poco “italiano”. Iniziò un ostracismo di regime contro il pugile mulatto: la sua carriera finì praticamente lì e le immagini stesse dell’incontro del titolo furono manomesse. Ora, quasi 90 anni dopo, un docufilm di Tony Saccucci prodotto e distribuito dall’Istituto Luce rende finalmente giustizia a un uomo e un atleta, illustre e sconosciuta vittima del razzismo dell’era fascista.
Si intitola ‘Il pugile del Duce’ e viene presentato in anteprima in Sala Petrassi all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 7 marzo alla presenza del Ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e della parlamentare europea Cécile Kyenge. In sala il 21 marzo (è previsto un solo giorno, anche se stanno arrivando numerose richieste all’Istituto Luce ed è probabile che la permanenza nelle sale si protrarrà), nella giornata mondiale contro il razzismo. Il 30 marzo, poi, dalle 12 alle 14 sarà proiettato al Parlamento europeo
Chi era Leone Jacovacci, il “nero di Roma”
Nacque nel 1902 in Congo da padre italiano e madre babuendi, ma arrivo prestissimo a Roma per poi trasferirsi nel Viterbese dove fu allevato dai nonni. A sedici anni prese la via del mare: si imbarcò come mozzo e andò in Inghilterra dove adottò il nome di John Douglas Walker e si arruolò nell'esercito inglese. Scoprì la boxe e esordì sul ring nel 1920 con lo pseudonimo di Jack Walker, in omaggio al pugile Jack Dempsey.
Era un fenomeno e nel 1921, dopo essersi trasferito a Parigi, il suo nome divenne quasi leggendario dopo aver infilato una serie di 25 vittorie consecutive. A quel punto decise di tornare a casa, in Italia, dove arrivo l’anno dopo per affrontare il campione italiano dei pesi medi, Bruno Frattini, al Teatro Carcano di Milano. Fu sconfitto ai punti, ma secondo i testimoni dell’epoca fu uno scandalo sportivo perché sul ring aveva mostrato una netta superiorità.
Decise di rimanere in Italia e di farsi riconoscere la nazionalità. Fu un lungo processo, ostacolato dal Partito fascista, ma alla fine vinse la sua battaglia e il 24 giugno del 1928 poté sfidare il campione in carica nazionale ed europeo, Mario Bosisio. Quella sera, allo stadio Nazionale di Roma, davanti a quasi 40.000 spettatori e in collegamento radio con tutte le città d’Italia, Leone Jacovacci combattè e vinse, laureandosi campione europeo dei pesi medi.
Un nero mezzo africano aveva battuto il pugile fascista, l’orgoglio d’Italia. Uno smacco per Mussolini che non voleva essere rappresentato nel mondo da un atleta così poco “italiano”. E così Jacovacci da quel momento subì l'ostracismo del regime e dovette abbandonare l'attività sportiva. Di lui, poi, si sa poco. Solo che morì a Milano, dove aveva trovato impiego come portiere di un condominio, nel 1983.
Una storia che avrebbe entusiasmato Hollywood
Una storia così, dove razzismo, immigrazione, talento, guerra, violenza e pregiudizio sono i sentimenti dominanti, se avesse avuto un protagonista americano sarebbe già diventata un film da Oscar. Magari con Denzel Washington, Jamie Foxx o Will Smith come protagonista e uno tra Steven Spielberg, Clint Eastwood o Martin Scorsese come regista.
E invece, essendo una storia tutta italiana, il cinema non se n’è mai accorto e solo oggi, nove anni dopo un libro di uno dei massimi esperti di razzismo in Italia, Mauro Valeri (‘Nero di Roma. Storia di Leone Jacovacci, l’invincibile mulatto italico’, Palombi Editore) e quasi 90 dallo storico match del 24 giugno 1928, finalmente un docufilm racconta questa magnifica vicenda.
Il merito va a un professore di Storia e Filosofia del Liceo Mamiani di Roma, Tony Saccucci, che è rimasto affascinato dal libro di Valeri e ha realizzato ‘Il pugile del Duce’, un docufilm in cui attraverso filmati e foto spesso inedite (cinegiornali provenienti dall’Archivio Storico Istituto Luce Cinecittà e dal British Pathè e fotografie e documenti degli archivi del CONI, di Vincenzo Belfiore, di famiglia di Leone Jacovacci, della Federazione Pugilistica Italiana e dalla Bibliothèque Nationale de France), musiche composte ed eseguite da due dei massimi talenti del panorama musicale e jazz italiano, Alessandro Gwis e Riccardo Manzi, la partecipazione dello stesso Mauro Valeri, della figlia di Leone, Nicole Jacovacci, e Patrizio Sumbu Kalambay (ex campione mondiale dei pesi medi di origine congolese poi diventato cittadino italiano) racconta la storia incredibile, sepolta e riscoperta dalla polvere degli archivi, di questo campione dimenticato.
Tony Saccucci: “Un film pensato per i ragazzi del liceo”
La vicenda di Leone Jacovacci è fortemente simbolica e oggi, in un momento in cui il razzismo, l’immigrazione, le discriminazioni sono di triste e strettissima attualità, questo pugile africano che parlava romanesco e mandò al tappeto il campione di Mussolini diventa un modello da recuperare e condividere.
E non è un caso che a riportare alla luce la sua vicenda sia un professore di liceo, uno che quando lo chiami al telefono per parlare del suo documentario per prima cosa ti chiede: “Scriva questo, per favore, che ho fatto questo film pensando di insegnare qualcosa ai ragazzi del liceo con un linguaggio lineare, perché il mio occhio è sempre rivolto a loro”.
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