Non stupisce la notizia pubblicata pochi giorni fa su un episodio di censura alle fiabe nella scuola Viviamo un tempo di semplificazione devastante che di fatto uccide la capacità di pensiero nelle giovani generazioni e non solo.
Occorre, credo, innanzitutto, fare chiarezza sulla natura del genere “fiaba”.
Riprendo un testo del 1989 di Emma Nardi (già professore ordinario di pedagogia sperimentale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione – Università Roma TRE) che spiega chiaramente la funzione pedagogica di certi meccanismi caratterizzanti la fiaba: "C'era una volta" è la formula immutabile e rassicurante che tradizionalmente apre la fiaba.
L'espressione rituale "c'era una volta" colloca la vicenda che sta per iniziare in una dimensione temporale remota e indefinibile. Non sappiamo e non ci interessa sapere in che epoca storica si svolgano le fiabe. Se mai si risponde alla domanda "quando?", la domanda "per quanto tempo?" trova sempre una risposta simbolica, più che realistica. Belle principesse, costrette da un malvagio incantesimo, dormono per cento anni e si svegliano giovani e attraenti come prima; personaggi costretti per lungo tempo a lavori sfibranti, mantengono il loro aspetto e la loro baldanza. Nella fiaba esistono sì i giovani e i vecchi, ma non esistono personaggi che avvertano il trascorrere del tempo, invecchiando: i giovani restano sempre giovani e, se i vecchi muoiono, ciò accade solo per una necessità dell'azione.”
La fiaba è un luogo senza spazio e senza tempo
La fiaba è dunque indeterminata nel tempo, ma anche nello spazio e il personaggio principale attraversa “le esperienze più terribili senza risentirne fisicamente (…). In questo senso è fuori luogo parlare della crudeltà della fiaba. Nella realtà chi è crudele con gli altri non infierirebbe comunque contro se stesso. Il personaggio della fiaba assiste senza battere ciglio alle peggiori efferatezze, ma subisce con la stessa imperturbabilità mutilazioni della sua persona.
Non di crudeltà si deve dunque parlare, ma di incapacità di registrare le implicazioni profonde del dolore, che viene dunque vissuto come evento marginale: il personaggio della fiaba è nitidamente ritagliato ma non ha spessore e non può quindi essere intaccato in una dimensione che non possiede.” (Emma Nardi, op. cit.). Esiste una funzione narrativa della cattiveria, come evidenzia lo stesso Propp in Morfologia della fiaba (1928), che non deve essere temuta, semmai interpretata e utilizzata per favorire lo sviluppo dei piccoli lettori.
Secondo Bruner (1990), nei bambini, la capacità narrativa gioca un ruolo fondamentale, non solo nella rappresentazione della realtà, ma nella costruzione del significato che viene attribuito alla stessa. Appare, quindi, essenziale prestare attenzione ad aspetti collegati alle modalità mediante le quali i bambini vengono impegnati a esprimere la loro abilità di interpretazione e narrazione del reale. Scrive Bruner (p.4): “Organizziamo la nostra esperienza e la nostra memoria degli accadimenti umani principalmente in forma narrativa: storie, miti, ragioni, scuse per fare o non fare qualcosa e così via. La narrativa è una forma convenzionale, trasmessa culturalmente e influenzata dal livello di padronanza di espressione, dal conglomerato di strumentazione prostetica, dai colleghi e dai mentori di ciascun individuo”.
Censurare le favole non ha senso
Bruner sottolinea come il contesto culturale in cui si è immersi possa influenzare la costruzione del significato da parte dei bambini e ci induce a pensare che organizzare e progettare attività didattiche che combinino uno spessore culturale forte e la strategia della narrazione possa costituire una soluzione efficace per lo sviluppo della qualità in campo educativo. Ovvio che censurare le favole non rientri in questo schema e l’episodio al centro della notizia nasce sicuramente da un equivoco di fondo dovuto, ancora una volta, allo scadimento culturale della società nella quale viviamo.
Per Harold Bloom, la storia europea si fonda sui canoni culturali dell’Occidente, il dramma è che oggi questo canone è accessibile, ma solo per un’élite ancora più ristretta. La problematica sollevata da Bloom è reale e deve essere affrontata con forza. Per contrastare la tendenza verso una forma di dipendenza dal sistema, è necessario promuovere e attuare interventi, attraverso azioni dedicate, finalizzati a compensare la mancanza di strutture in grado di creare il bagaglio culturale delle giovani generazioni. Lo sviluppo del pensiero critico rappresenta una delle strategie essenziali in questo senso (Poce, 2018).
Il rischio molto concreto è finire nella situazione grottesca descritta da Manzini nel pamphlet ironico Sull’orlo del precipizio (2015), opera centrata sulla realtà drammatica dell’editoria italiana, che tende, per ragioni di mercato, a offrire prodotti sempre più livellati sul pubblico contemporaneo e a produrre risultati sempre più inquietanti:
“Sto ritraducendo tutta la letteratura italiana. L'operazione difficile sarà coi Promessi Sposi… sa, quell’italiano lì… (…) Ma sì. Noi, la Sigma, vogliamo avvicinare i ragazzi alla letteratura e usare una lingua che gli faccia amare i libri. Vuole un esempio? (…) Senta l’inizio dei Promessi Sposi… *Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume…* che palle, no?” (p.35)
Riferimenti
V.J. Propp (1976). Morfologia della fiaba, Roma, Newton Compton, 1976, trad. it. di S. Arcella, p. 33.
Nardi E. (1989). Le forme del testo, Napoli, Tecnodid, 1989
Poce A. (2017). Verba Sequentur. Pensiero e scrittura per uno sviluppo critico delle competenze nella scuola secondaria, Milano: FrancoAngeli.
Bruner J. (1990). Acts of Meaning, Harvard University Press: Cambridge Mass (USA).
Manzini A., (2015). Sull’Orlo del Precipizio, serie Il divano n. 303, Palermo: Sellerio.