AGI - Le notizie dal conflitto in Ucraina non sono rassicuranti. Tutt’altro. Sia dal punto di vista umanitario che da quello della sicurezza, perché per la prima volta si dà battaglia in un Paese che ospita quindici impianti nucleari suddivisi in quattro siti. E, per tragica ironia, proprio nel territorio che ha registrato nel 1986 il più grave incidente dell’era nucleare.
Nella notte del 3 marzo scorso, un attacco al sito di Zaporizhzhia – che concentra sei reattori della filiera VVER (v. nota “I rischi nucleari nel teatro di guerra ucraino”) – ha lasciato col fiato sospeso perché, durante il conflitto, un bombardamento ha finito per generare un incendio presso una delle unità presenti.
Tranquillizziamo subito affermando che le notizie più recenti rassicurano riguardo al fatto che ci sia stato un qualche tipo di danneggiamento dell’impianto: a essere colpita è stata solo l’area della recinzione esterna. Ma, a questo punto, la domanda su cosa sarebbe potuto accadere qualora fosse stato colpito – per volontà o per errore – l’impianto accompagna gli scenari più foschi di questa già terribile tragedia.
Si evoca sempre, da più parti, lo spettro di Chernobyl. Dobbiamo chiarire subito che tra la filiera RBMK, quella cui apparteneva la centrale disastrata, e la filiera VVER, quella attualmente in esercizio in Ucraina, non esiste alcuna stretta “parentela” tecnologica. E ancora più lontana tra le due è la filosofia della sicurezza adottata in questi impianti appartenenti a una generazione che abbraccia sia l’esistente (seconda generazione) che la terza, quella che sta poco alla volta sostituendo nel mondo la precedente.
Stiamo parlando dell’aspetto fondamentale adottato negli attuali impianti nucleari: la cosiddetta “difesa in profondità”. La stessa struttura interna del combustibile nucleare (pellet) ha la funzione di trattenere la maggior parte della radioattività prodotta durante il funzionamento; questo, che costituisce il cuore delle reazioni nucleari, è poi confinato nella guaina che costituisce l’elemento proprio di combustibile, immerso in sistema di refrigerazione primario utilizzato per asportare il calore da tale zona attiva. Tutto questo insieme (nocciolo) viene poi racchiuso in un massiccio cilindro di acciaio (vessel) e, alla fine, l’intero sistema è incluso e protetto dall’edificio di contenimento in calcestruzzo, che separa l’impianto dall’ambiente esterno.
Questa filosofia della difesa in profondità – nella fase di fusione del nocciolo – ha fatto la differenza tra l’incidente americano di Three Mile Island, nel 1979, e quello di Chernobyl nel 1986.
Le strutture di contenimento in calcestruzzo sono sottoposte a rigidi e severi controlli per garantirne l’integrità strutturale in varie condizioni. La filiera VVER, che si avvicina ingegneristicamente alla filiera dei pressurizzati occidentali PWR, gode di un analogo criterio (o filosofia) della sicurezza. Il calcestruzzo subisce prove estreme, per verificarne la solidità.
Il CEO dell’Energoatom che gestisce i reattori in Ucraina, al tempo della presa di Chernobyl, ha dichiarato che gli impianti ucraini possono subire anche le conseguenze di un incidente aereo, perché il contenimento dell’edificio dei reattori è progettato per resistere a rischi equivalenti.
Di certo, una verifica su un reale teatro di guerra non è stata mai portata a termine. Ma le effettive probabilità di un grave incidente dovuto a un deliberato atto bellico sono basse. E, questo, anche per altri motivi. Precisiamo che la dinamica dell’incidente di Chernobyl, sia per la tipologia di impianto che per la sua evoluzione “transfrontaliera”, nasce dall’interno della zona attiva, proprio al primo livello della difesa in profondità (difesa che, ripetiamo, in quell’impianto era decisamente non adeguata).
In caso di attacco, tale dinamica sarebbe completamente invertita: dovrebbe superare la barriera esterna – già di per sé efficace – e via via far saltare almeno i restanti livelli di difesa. Certo, non è necessario arrivare al combustibile per danneggiare un impianto in modo severo... ma, a questo punto, è d’obbligo una osservazione: se davvero – e deliberatamente – si vuol produrre un incidente in modo grave in un impianto nucleare, è molto più “facile”, conoscendone la gestione esecutiva, produrlo dall’interno, operando volutamente in modo malevolo e scellerato.
È questo che gli occupanti desiderano? E a che scopo, dato che gli effetti ricadrebbero anche sulla loro presenza?
Non sono uno stratega militare ma penso che, per conquistare un Paese, potrebbe essere sufficiente arrivare al controllo dell’informazione e a quello dell’erogazione dei servizi. Occupando gli impianti nucleari – e quindi controllando buona parte della produzione energetica ucraina – la presa definitiva di potere potrebbe essere ahimè vicina.
Detto tutto questo in modo asettico, senza considerare quegli aspetti che toccano corde più profonde e che lasciano senza parole, come l’evidenza di una crudele mancanza di umanità da parte di una certa umanità e, soprattutto, della morte della ragione.