Per rendere più agevole l’interpretazione di quegli aspetti tecnici che maggiormente sono stati coinvolti nel disastro, descriviamo il funzionamento di un reattore nucleare con particolare riferimento alle criticità di alcune operazioni svolte a Chernobyl.
Quando ho avuto occasione di approfondire nei documenti ufficiali lo studio di ciò che era accaduto in quella tragica notte, non nascondo di aver provato una profonda sensazione di disagio. L’idea di come avessero agito gli operatori e i tecnici presenti sull’impianto, pronti a far partire un esperimento di per sé già delicato quando il reattore era ormai sul punto di trovarsi fuori controllo, mi aveva lasciato sconcertato.
Come esempio, parliamo di ciò che avviene in casa nostra. Per condurre un impianto nucleare di ricerca, la legislazione italiana prevede che il personale debba conseguire un’abilitazione dopo un certo periodo di addestramento pratico e di studio teorico (che può arrivare a qualche anno) alla fine del quale esso è sottoposto al giudizio di una commissione medica per l’accertamento psicofisico attitudinale e di un’altra commissione d’esame che subordinerà il rilascio dell’abilitazione al superamento di tre prove. Non facili.
Lo staff di conduzione dei reattori di ricerca italiani, uno dei quali arriva a un massimo di potenza pari a 1 megawatt termico (1 MWt), ha una precisa conoscenza di quegli elementi che costituiscono la base teorica del funzionamento di un reattore nucleare, come ad esempio il coefficiente di vuoto (positivo o negativo) o la presenza di veleni nel nocciolo. Il megawatt termico di un impianto (MWt) si differenzia da quello elettrico (MWe), che è più basso. Bisogna tener conto del cosiddetto rendimento, che in questi casi è circa del 30%.
Alla luce di ciò che è accaduto in Bielorussia, trovo ancora oggi incomprensibile che operatori alla conduzione di un reattore da oltre 3.000 MWt abbiano disatteso le norme più elementari che sono il fondamento della sicurezza nella conduzione di un impianto nucleare. Cosa è accaduto di così drammatico da far perdere completamente la lucidità al personale in sala controllo?
Procediamo con ordine.
Un reattore nucleare è un sistema che produce calore grazie alle reazioni nucleari che avvengono all’interno del combustibile inserito nel nocciolo (core), come abbiamo visto nella puntata precedente. E le reazioni si verificano quando i neutroni catturati dai nuclei di uranio iniziano a produrre fissioni. Ma come viene controllata la reazione?
Nel nocciolo, contenuto in un recipiente a pressione (vessel) e strutturato in un certo numero di elementi di combustibile (tipicamente uranio incamiciato in barre) sono inseriti alcuni assorbitori di neutroni, le cosiddette barre di controllo, costituite in genere da elementi come boro, carburo di boro, grafite borata, cadmio, ecc.
Quando queste barre sono completamente inserite nel nocciolo, il sistema è da considerarsi spento; quando esse vengono pian piano estratte, le reazioni iniziano a prodursi e la potenza a salire. E’ proprio la dinamica di estrazione e il successivo equilibrio raggiunto a determinare la condizione di stazionarietà tra i neutroni prodotti e quelli che sfuggono via, condizione di reattore critico a una ben definita potenza.
Per essere più tecnici, il fattore di moltiplicazione indica il rapporto fra il numero di neutroni prodotti a una certa generazione dei processi di fissione e il numero di quelli prodotti nella generazione precedente. Se questo rapporto è uguale a 1, il reattore è definito critico. Il discostamento relativo di questo valore (indicato in genere con la lettera k) dal valore 1 è chiamato reattività. E’ questo uno dei parametri più importanti nel controllo di un reattore. Le barre di controllo devono essere in numero sufficiente e in grado di poter controllare la reattività di un reattore.
A Chernobyl si è verificato proprio un incidente di reattività (escursione incontrollata di potenza).
Per poter generare reazioni di fissioni, nei reattori chiamati termici i neutroni devono essere rallentati (termalizzati) al fine di abbassare la loro energia, altrimenti verrebbero difficilmente catturati dai nuclei di uranio. Per far questo, viene utilizzato un opportuno moderatore, costituito in genere da acqua o da grafite.
L’intenso calore prodotto dagli elementi di combustibile nel nocciolo viene asportato da un circuito di raffreddamento (primario) che trasferisce questo calore, tramite opportuni sistemi detti scambiatori di calore, a un altro circuito di raffreddamento (secondario). Generalmente, si tratta di acqua. Tra questi due circuiti ‒ in condizioni di esercizio normale ‒ non c’è mai contatto diretto: sono completamente indipendenti. Il vapore generato nel circuito secondario viene poi inviato alle turbine e da queste agli alternatori per la produzione di corrente. La differenza tra un impianto convenzionale di potenza per la produzione elettrica (per esempio bruciando combustibile fossile) e uno nucleare è in pratica solo nel modo diverso di produrre il calore. La modalità di generazione elettrica è identica in entrambi i sistemi.
Anche quando un reattore nucleare viene spento, è necessario continuare a garantire lo smaltimento del calore dal nocciolo dovuto al decadimento dei prodotti di fissione. Il contributo di questo calore non è irrilevante: all’istante dello spegnimento, esso arriva a rappresentare fino al 6% della potenza nominale di esercizio del reattore (dipende anche dal tempo durante il quale questo ha operato). Ciò significa che, qualora dovesse venire a mancare la necessaria refrigerazione, le alte temperature nel combustibile (dovute anche all’accumulo progressivo di energia di decadimento al suo interno) porterebbero a un suo danneggiamento con relativa fusione (meltdown). Questa situazione è ben studiata in fase di progetto (disegno di base) e viene affrontata, per via dei necessari criteri di sicurezza da applicare, inserendo nel circuito di raffreddamento un sistema ausiliario di emergenza, qualora si dovesse presentare una condizione incidentale di perdita di refrigerante (detta LOCA, Loss Of Coolant Accident). Tale sistema ausiliario è chiamato ECCS (Emergency Core Cooling System).
Nel reattore di Chernobyl, per un eccesso di cautela che si rivelò poi invece fatale, l’ingegnere capo Nikolai Fomin disinserì consapevolmente il sistema di raffreddamento d’emergenza, forse per evitare un possibile shock termico causato dall’acqua fredda a contatto con il corpo reattore bollente. Una “delicatezza” che però si trasformò in una catastrofe.
Durante il funzionamento di un reattore, alcuni prodotti di fissione sono loro stessi assorbitori di neutroni (per esempio, un particolare tipo di xeno). Questa presenza ha l’effetto di deprimere la reattività del sistema, che può essere compensata introducendo un incremento di reattività, per esempio con una maggiore estrazione delle barre di controllo. Si tratta dei cosiddetti veleni nucleari, che possono accumularsi anche dopo lo spegnimento del reattore.
Nella gestione operativa di un impianto, tenere conto di questo aspetto, cioè del suo stato di avvelenamento, può fare la differenza tra una conduzione normale e una possibile situazione accidentale.
A Chernobyl, la gestione relativa alla compensazione dell’avvelenamento del reattore è stata scellerata. Aggravata anche da un’altra caratteristica che rendeva la conduzione di quel reattore di per sé estremamente delicata: il coefficiente di vuoto, disgraziatamente positivo, per come era stato progettato l’impianto.
Il coefficiente di vuoto è un parametro di funzionamento che ha un effetto importante sulla reattività. Esso rappresenta il rapporto tra il volume della parte vapore rispetto a quella della fase liquido/vapore nella zona attiva del reattore (variazione di densità). La presenza di bolle di vapore (corrispondenti a un vuoto) avrebbe l’effetto di deprimere la reattività (coefficiente di vuoto negativo) o di incrementarla (coefficiente di vuoto positivo). Inutile dire che il suo valore negativo costituisce un elemento intrinseco di sicurezza, soprattutto nelle fasi di quei transitori di potenza che potrebbero generare incidenti.
L’impianto di Chernobyl era caratterizzato da un coefficiente di vuoto sensibilmente positivo. La presenza di vuoti, a qualsiasi titolo, avrebbe incrementato inesorabilmente la reattività del sistema. Se Fomin non avesse escluso il sistema di raffreddamento di emergenza, avrebbe potuto almeno tentare di mitigare l’effetto drammatico del coefficiente di vuoto.
Come vedremo, questo fu solo l’inizio della catastrofe. Erano le 14:00 del 25 aprile del 1986. Mancavano solo undici ore alla tragedia...
Agghiacciante è sapere che subito dopo il disastro, nonostante l’eco di due boati, come fossero tuoni, nella sala controllo nessuno aveva capito ancora cosa stesse realmente accadendo. S’erano fatti un’idea assolutamente “minimalista” degli eventi. Molti dei presenti, sconcertati, quasi a volersi giustificare, ripetevano: «Non ci capisco niente! Che diavoleria è mai questa? Noi abbiamo fatto tutto correttamente!» (Grigorij Ustinovič Medvedev – Dentro Cernobyl – Ed. la meridiana, Bari 1996)
Intanto, quel che restava del reattore bruciava. E la dose di radioattività aveva raggiunto nella zona disastrata il valore di quasi 300 Sv all’ora (Sievert, che è l’unità di misura della dose equivalente di radiazione).
La legge italiana prevede che la popolazione, per effetto del fondo di radioattività naturale, non debba superare il limite di 1 mSv all’anno di dose efficace (1 millesimo di Sievert in un anno) a causa dell’irraggiamento naturale esterno.
In prossimità del reattore sventrato, c’era una dose trecentomila volte più alta di questa (e misurata in un’ora, non in un anno!), di cui gli operatori non avevano nemmeno la stima esatta perché la loro strumentazione di dosimetria arrivava a fondo scala con una dose di 34 mSv, 34 millesimi di Sievert. Gli altri rivelatori con fondo scala più alto erano chiusi in cassaforte.
Già. Loro avevano fatto tutto correttamente...
Fig.1 – Schema di funzionamento di un reattore nucleare