Ognuno di noi possiede caratteristiche uniche come l’altezza, il peso, la postura, la quantità di pelo sul corpo, il naso prominente, l’aspetto, il modo di pensare ecc. che lo differenziano dagli individui di altre specie ma anche della stessa specie. È possibile naturalmente che alcuni di questi “caratteri” (ad esempio, il senso di humor, l’aspetto, il colore degli occhi) sono condivisi con altri individui della stessa specie (i genitori, i fratelli), mentre altre caratteristiche come la colonna vertebrale, le ghiandole mammarie, sono condivise con altri rappresentanti della classe dei mammiferi. Tutti questi caratteri sono ereditari cioè trasmessi biologicamente di generazione in generazione attraverso specifiche unità di informazioni definite “geni”.
I geni contengono le istruzioni per costruire cellule, tessuti, organi e organismi completi. I geni vengono trasmessi dai genitori ai figli attraverso la riproduzione sessuale seguendo particolari modelli di eredità. I geni si distribuiscono nelle varie popolazioni con frequenze diverse rendendo ognuno di noi diverso da un altro per una piccolissima quota di DNA (lo 0.03%): siamo allo stesso tempo uguali e diversi. Ecco questo è l’insegnamento più importante che ci ha dato Luca Cavalli-Sforza. Proprio queste differenze scoperte da lui per la prima volta, sono alla base della medicina personalizzata. La medicina moderna che ci permetterà di curarci in modo preciso, accurato e senza rischi.
Lo studio della distribuzione e della frequenza dei geni nelle diverse popolazioni è stata la disciplina studiata da Cavalli-Sforza, ovvero la genetica di popolazione. Lo sviluppo di questa scienza ha fornito risposte a numerosi quesiti circa l’origine della nostra specie, le grandi migrazioni che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’uomo moderno, il ruolo della selezione naturale nel mantenere le frequenze geniche nelle popolazioni e sul piano applicativo, gli effetti dei programmi di prevenzione e di terapia sulla frequenza dei geni dannosi. Per molto tempo, soltanto i parametri antropologici (colore della pelle, aspetto fisico del corpo, tratti facciali ecc.) venivano utilizzati per descrivere la nostra diversità.
Tuttavia, questi caratteri sono fortemente influenzati dall’ambiente e quindi poco adatti a studiare le relazioni tra i popoli e l’evoluzione dell’uomo moderno. Soltanto il confronto tra geni può fornire queste informazioni. La variabilità genica della nostra specie è talmente elevata da consentire la definizione di mappe geografiche basate sulla frequenza di particolari alleli. Proprio l’esistenza di una tale grande variabilità ha permesso a Cavalli-Sforza di dimostrare la non esistenza delle razze nella popolazione umana. Studiando ad esempio le differenze genetiche del cromosoma Y è stato possibile stabilire che gli amerindi (i popoli originari dell’America) provenivano da una regione centrale della Siberia attraverso flussi migratori avvenuti durante il pleistocene, ma anche permesso di stabilire che l’evento di separazione in termini genetici, tra l’uomo di Neanderthal e l’uomo moderno è avvenuto 500.000 anni fa. Gli studi di genomica hanno ormai dimostrato che i Neanderthal si incrociarono con i primi esseri umani moderni usciti dall'Africa, e che le popolazioni non africane sono il prodotto di questo mescolamento. Si stima che in media dall'1 al 4 per cento del genoma di un non africano sia costituito da sequenze ereditate dai Neanderthal.
Alcune di queste sequenze sarebbero alla base di patologie della pelle, del sistema immunitario, del metabolismo, ma anche dell’apparato riproduttivo e del sistema nervoso, inclusi disturbi depressivi e dipendenza dalla nicotina, oggi presenti nella nostra specie. Sono malattie quindi che ci portiamo dietro da più di quarantamila anni, ereditate dal DNA degli uomini di Neanderthal che ancora è presente nel nostro genoma.
Ecco questi sono esempi della straordinaria eredità che Cavalli-Sforza ci lascia. A questo si aggiunge secondo me l’insegnamento più importante:
"La scienza fa paura agli ignoranti e quando non fa paura, la scienza delude: ma anche qui per ignoranza (Cavalli-Sforza, 2006)".