La Giornata Mondiale dell’acqua è stata un’occasione importante per fermarsi a riflettere sull’acqua come bene comune della Terra, come fonte di vita, come patrimonio da tutelare.
Qui vorrei soffermarmi in particolare sull’acqua potabile, come bene naturale destinato al consumo umano. Essa proviene soprattutto dalle acque sotterranee (acque di falda), rappresentando una risorsa essenziale per la vita.
Si ritiene l’agricoltura responsabile della gran parte di consumo di questa risorsa e del suo inquinamento. Lo affermano i dati resi disponibili da vari esperti, più o meno auto referenziati, ai media: alla produzione di alimenti pare essere destinato un volume pari a 3.100 miliardi di metri cubi di acqua annui, corrispondente circa al 70% dei consumi idrici complessivi del pianeta. E l’Italia sembra essere il secondo Paese al mondo per importazione di acqua a causa della sua fiorente attività agro-alimentare.
Ma è davvero così? Sembrerebbe. Ad esempio è diffuso il luogo comune per cui servono 15 mila litri d’acqua per produrre un chilo di manzo, ma sono tanti gli esempi che si possono fare per dimostrare quanto le produzioni zootecniche consumino molto di più rispetto alle altre produzioni agricole.
Però ci sono molti aspetti della questione ignoti ai più, che derivano da speculazioni politiche e metodologiche, su cui in una giornata come questa, ritengo si debba riflettere.
In realtà infatti i dati sopra citati non sono corretti; si tratta di valori da decurtare dell’ottanta percento, se non di più. Per questo mi pare utile far riferimento al concetto di impronta idrica, indicatore del volume totale di risorse idriche utilizzate per produrre i beni e i servizi consumati da una nazione da un’azienda, ma anche da ciascuno di noi.
Il calcolo dell’impronta idrica della carne e delle produzioni zootecniche è piuttosto complesso e andrebbe eseguito con molta più precisione, in modo meno superficiale di quanto non avvenga. Sono infatti molti gli aspetti che vengono inutilmente considerati, mentre altri non vengono valutati con la dovuta attenzione.
In particolare da questi dati vanno decurtati il valore della evapotraspirazione delle produzioni foraggere di processo, quota di acqua che si sarebbe di per sé persa naturalmente in presenza di una vegetazione naturale. Infatti se applichiamo calcoli corretti ed analisi del ciclo di vita a livello complessivo, emerge come l’intero settore delle carni italiano (bovino, avicolo e suino) impiega per l’80-90% risorse idriche che fanno parte del naturale ciclo dell’acqua e che vengono restituite all’ambiente, come appunto l’acqua piovana. E dunque solo il 10-20% dell’acqua necessaria per produrre 1 kg di carne viene veramente consumata.
Però molto si deve fare per essere ancora più sostenibili. Basterebbero interventi semplici, affiancati da un indispensabile impegno di tipo politico e gestionale. Ad esempio seguendo le buone pratiche, e utilizzando le tecnologie genetiche-meccaniche-chimiche più avanzate, si potrebbero ridurre ulteriormente gli eventuali sprechi. Basterebbe seguire i modelli di riferimento delle best practice imprenditoriali nel settore zootecnico e degli altri settori agricoli italiani (penso ad esempio al fantastico settore del vino vedi www.viticolturasostenibile.org) che già esistono, soprattutto nel contesto italiano. Anzi, mi spingo oltre. Il modello italiano andrebbe esportato perché il fragile made in Italy si contestualizzi a livello internazionale come sistema di produzione alimentare di qualità e sostenibile anche perché attento alla tutela della risorsa acqua.
Ettore Capri
docente ordinario della facoltà di Scienze agrarie, alimentari e ambientali e direttore del centro di ricerca per lo sviluppo sostenibile (Opera) dell'Università Cattolica del Sacro Cuore