I bambini e gli adolescenti utilizzano i social e le chat per comunicare anche i loro stati d’animo, disagi, emozioni e problemi con il tentativo di sentirsi meno soli, di condividere il loro malessere, di trovare l’illusione che a qualcuno importi veramente di loro e di ciò che provano. Tanti lo fanno anche per mettere in mostra ciò che sono, per attirare l’attenzione e per pennellare il loro Io. Ma la maggior parte condivide tutto automaticamente, nel bene e nel male, è un’abitudine che si portano fin dalla prima infanzia, e non si rendono mentalmente conto della portata della rete e della risonanza che possono avere i loro movimenti in rete.
Spesso usano i social anche per lanciare segnali forti di disagio, fino ai casi più estremi del suicidio, con una modalità molto allarmante di rendere pubblica la propria scelta di suicidarsi o addirittura il gesto estremo vero e proprio.
Se andiamo a ripercorrere alcuni casi di cronaca ci rendiamo conto che non è la prima volta che accade. Se ne parla purtroppo solo dopo che un ragazzo decide di togliersi pubblicamente la vita. Se ne parla per qualche giorno, si demonizzano in maniera errata e deresponsabilizzante i social, additati come colpevoli del malessere dei più giovani, dimenticandoci che questo mondo in cui esprimono tutto il loro disagio, non è poi così sommerso. In Francia, nel 2016, una 19enne ha filmato il proprio suicidio in diretta su Periscope. Nel 2019, una ragazzina bullizzata ha annunciato la sua morte sui social per poi togliersi la vita.
Questa volta ha puntato i riflettori su questo uso distorto dei social network un’adolescente che ha voluto affidare il suo destino ai suoi “amici” social. Oggi nelle storie di Instagram si interagisce con i propri utenti, si fanno domande, si cercano risposte, si risponde e si possono lanciare anche sondaggi che perdono di visibilità agli utenti dopo 24 ore.
La ragazza ha chiesto ai suoi seguaci di scegliere tra la sua vita e la sua morte. A 16 anni, ha postato un sondaggio nelle storie di Instagram, domandando chiedendo: “Aiutami a scegliere, D o L”, dove D (death) stava per morte e L (life) per vita. Dalle prime ricostruzioni sembrerebbe che la ragazza, aveva scritto anche su Facebook “Voglio morire, sono stanca”. In seguito all’esito del sondaggio, secondo il quale, il 69% degli intervistati avrebbe risposto MORTE, sembra che si sia tolta la vita, lanciandosi dal tetto del palazzo in cui abitava.
Da quanto si evince dai giornali, coloro che hanno votato in favore della morte della ragazza, potrebbero essere accusati di istigazione al suicidio.
È importante però sottolineare che la ragazza non è morta per colpa del sondaggio o per le risposte degli utenti. Questo non giustifica il comportamento degli utenti di non intervenire e di non pensare che non potesse essere uno scherzo. Probabilmente la piccola era già “morta psicologicamente” e lo avrebbe comunque fatto.
Tanti utenti pensano che sia un gioco, un sondaggio per interagire con la persona, altri sono schifosamente insensibili e menefreghisti e stanno a guardare come si fa con una vetrina per la strada. Lei ha utilizzato il mezzo che usano quotidianamente i ragazzi in maniera naturale, la rete e i social, per condividere con gli altri ciò che aveva dentro.
Comunicare la propria sofferenza in rete: cosa spinge i ragazzi a farlo?
In un’epoca in cui azioni e relazioni sono ormai tecno-mediate, in cui il concetto di privacy e intimità è diventato condiviso, sembra quasi scontato utilizzare la tecnologia per cercare quello spazio personale che troppe volte non si trova nella realtà. Gli adolescenti utilizzano spesso il Web per comunicare il proprio grido di aiuto, non sempre ascoltato o compreso e che spesso lascia nel vuoto le loro richieste.
Tali forme di comunicazione, mostrano un bisogno profondo di trovare una comunità virtuale con cui condividere il proprio dolore. Esporsi sui social network, però, può essere un’arma a doppio taglio, perché è possibile anche trovare dall’altra parte persone pronte ad attaccare, a giudicare e ad istigare ancora di più la messa in atto di gesti estremi.
Rifugi virtuali: tra angosce e bisogno di condivisione
Che in rete ci siano luoghi in cui i ragazzi si scambiano e condividono esperienze legate alla morte, all'autolesionismo, ai tentativi di suicidio è un dato di fatto. Tanti adolescenti spostano la propria vita direttamente sul Web e spesso si nascondono, aprono dei profili finti, riuscendo in tal modo ad esprimere e tirar fuori, all’interno di gruppi, blog e social, ciò che normalmente tendono a reprimere.
Ci sono spazi online che fungono da contenitori di angosce adolescenziali, in cui i ragazzi condividono e comunicano il proprio disagio interiore attraverso l’utilizzo di abbreviazioni e dei cosiddetti hashtag o #. Dopo il segno #, si nasconde tante volte un mondo sommerso di dolore e di sofferenza: #cut, #selfharm, #depressione, #suicidio, #help, #solitudine e altri ancora.
Questi luoghi virtuali possono rappresentare una via d’uscita, un conforto, un luogo protetto, altre volte però possono diventare luoghi di rinforzo ed esaltazione di questi comportamenti. Non significa che si arriva a togliersi la vita per colpa della rete o delle risposte ricevute da altri utenti, ma data la fragilità e la vulnerabilità interna di questi ragazzi, c’è il rischio che strumenti tecnologici e media possano amplificare in maniera drastica situazioni e vissuti già difficili.
Il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti!
La cronaca riporta, purtroppo, sempre più spesso casi di ragazzi che tentano il suicidio o che si sono tolti la vita e, in questi ultimi anni, stiamo assistendo ad un incremento delle patologie depressive, dell’autolesionismo, dei tentativi di suicidio fin dalla tenera età, a conferma della fragilità di questi adolescenti, sempre più soli, tristi e abbandonati a loro stessi.
Secondo i dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, raccolti su un campione di 11.500 adolescenti su tutto il territorio nazionale, circa 6 adolescenti su 100 hanno tentato il suicidio, di cui il 71% sono ragazze e il 24% ha pensato al suicidio. Sono dati di fronte ai quali non si può far finta di nulla e continuare a restare in silenzio.
Se ne parla ancora troppo poco, non si ascoltano i ragazzi e non si dialoga con loro. In famiglia si fa fatica a parlare di argomenti così delicati e a scuola non si fa una adeguata prevenzione, perché spesso si pensa erroneamente che se ne parliamo con loro, li istighiamo a farlo. Gli adolescenti, però, conoscono molto bene questi fenomeni, fanno spesso domande su autolesionismo e suicidio e hanno un profondo bisogno di parlarne con adulti consapevoli e informati, che possano aiutarli a comprendere e ad esprimere dubbi e paure.
Serve sicuramente una prevenzione adeguata fatta da persone serie e preparate, non chi si improvvisa esperto, altrimenti i ragazzi continueranno a morire sotto i nostri occhi.