“Abbracciami se avrò paura di cadere che siamo in equilibrio sulla parola insieme…” sono alcune delle parole della canzone Abbi cura di me di Simone Cristicchi presentata a San Remo 2019, festival all’insegna dell’amore e della cura. Una canzone che può essere interpretata come delle parole di un genitore rivolte verso un figlio, o di un compagno o una compagna come segno d’amore o anche di una profonda amicizia. Sono parole che fanno riflettere sul senso profondo del prendersi cura dell’altro inteso come segno d’amore. Prendersi cura significa avere cura dell’altro, essere premurosi e sottende il concetto di dedizione senza un egoismi e interessi personali.
La cura
La cura dovrebbe partire dal prendersi cura in primis di se stessi perché chi non sa amare se stesso non è in grado di amare l’altro. Non confondiamo, come spesso accade, il bisogno e la compensazione con l’amore, e non indentifichiamo, come altrettanto spesso accade, le cure materiali con quelle emotive. Anche l’amore di un genitore nei confronti di un figlio deve andare oltre l’accudimento materiale, oltre di dargli tutto ciò di cui ha bisogno.
Il bambino ha un profondo bisogno di sentirsi amato e soprattutto protetto da chi si prende cura di lui e ha l’esigenza di essere riconosciuto, di essere accettato e di essere rinforzato non solo da un punto di vista fisico ma anche e soprattutto da quello emotivo affinché possa affrontare e superare tutti i compiti dello sviluppo e identificarsi come persona autonoma, strutturando un Io stabile con dei confini ben definiti.
Le esperienze di mancanza di accettazione, di riconoscimento, di rifiuto e di separazione dalle figure di accudimento sono condizioni che gravano notevolmente nella psiche di un bambino e lasciano dei segni molto profondi. L’esperienza di abbandono e di rifiuto rischiano di lasciare dei vuoti che il piccolo tenterà di colmare in altro modo, di farlo vivere con una sensazione di incompletezza, di sentirsi irrisolto, nonché lasciarlo in compagnia di troppe domande.
Il caso del bimbo di Torino
Come può un bambino accettare di essere stato abbandonato e rifiutato da chi lo ha messo al mondo e ha deciso volontariamente di non prendersene più cura. È quello che, per esempio, è accaduto al piccolo di soli 8 anni in provincia di Torino che in questi giorni è diventato figlio di tutta Italia. Una storia che purtroppo non è la trama di un brutto film, ma vita vera e vissuta da una creatura che ha dovuto dire a chi lo ha trovato vagare tutto solo per strada: “mamma non mi vuole più”, nella sua vita non c’è più posto per me, sono un peso per lei e ora vorrei qualcuno che mi vedesse, che riconoscesse che sono un bambino, che capisse che anche io ho bisogno di sentirmi protetto e amato da qualcuno che poi non decida di abbandonarmi senza neanche sapere se sono vivo o morto.
Una storia che ha toccato ognuno di noi e che ci ha fatto riflettere sul vero senso della cura e della responsabilità genitoriale. Ora è vero che il piccolo è messo in sicurezza e che sta bene, ma deve fare i conti con se stesso e con il suo passato ancora per molto tempo anche se sta ricostruendo man mano la fiducia nelle relazioni umane e affettive, sta sperimentano cosa significhi avere qualcuno che ti voglia bene, anche se quel qualcuno non è tua madre, ma è una rete sociale che in tanti casi è più materna di una madre. Per essere materni o paterni, non si deve per forza essere madri o padri, è un istinto che abbiamo dentro che ci porta a prenderci cura dell’altro che amiamo.
Cosa prova un bambino trascurato, abbandonato o tradito
Un bambino che viene trascurato, abbandonato o tradito da un punto di vista psicologico da una figura di riferimento affettiva, è un bambino che perde il suo appoggio emotivo, quel pilastro in grado di dargli stabilità e sostegno quando serve. Rischia di crescere troppo in fretta, di bruciare le tappe evolutive, di vivere una condizione di adultizzazione precoce, come spesso accade anche a tutti i bambini che si trovano costretti a fare da genitore al proprio genitore e di sviluppare una sorta di atteggiamento di falsa autonomia e sicurezza che deriva dalla sensazione di “doversela cavare da solo”.
“Come se casa non fosse una gabbia anche lei E la famiglia non fossero i domiciliari Ho sedici anni ma è già da più di dieci Che vivo in un carcere Nessun reato commesso là Fuori Fui condannato ben prima di nascere”.
Sono parole molto forti e molto vere, della canzone di Daniele Silvestri. Forse non ci rendiamo realmente conto di quanti bambini e ragazzi siano davvero condannati già prima di nascere perché forse non riusciamo a vedere l’impatto dell’ambiente che ha nello sviluppo e nella crescita di un bambino e di quanto l’interazione di specifici fattori aumenti esponenzialmente la probabilità che si possa seguire una specifica traiettoria evolutiva piuttosto che un’altra.
Come per esempio di quanto la violenza di un genitore nei confronti di un figlio possa segnarlo creando delle lacerazioni indelebili, non solo da un punto di vista fisico, ma anche e soprattutto psicologico. I lividi passano, le cicatrici diventano parte integrante del nostro corpo e della nostra immagine corporea ma le parole ogni volta che le sentiamo, o che vengono richiamate dalla memoria, risuonano più forte di un tuono e scuotono la psiche che si trova costretta ad imparare ad accettarle e a conviverci per sopravvivere.
“Però (il padre) rubò il suo vero cuore con freddezzaIn cambio della vitaE non lo senti cheQuesto cuore già batte per tutti e dueChe il dolore che hai addosso non passa più”.
Come canta Irama nella sua ultima canzone presentata a San Remo, non è facile amare una persona fragile, non è facile amare quando le cose non vanno bene, quando ci sono problemi, quando la vita non scorre come vorremmo. È vero che non è facile ma è proprio in quei momenti che si vede se si parla di vero amore e quanto è veramente forte il legame.
Perché quando ci prendiamo cura di qualcuno, ci riferiamo a qualcuno a cui siamo profondamente legati e quando amiamo una persona è importante prendersi cura del legame e non degli aspetti materiali e superficiali.