Non lo sa ancora quasi nessuno, ma da più di venti anni il 19 novembre si celebra la Giornata mondiale degli uomini. È vero, in un anno ci sono più giornate mondiali che giornate, eppure quella dedicata all’uomo merita un minimo di attenzione, non foss’altro che su 7,6 miliardi di persone censite nel 2017 dalle Nazioni Unite nel World Population Prospects un po’ più della metà è composta da maschi.
Ogni 100 donne ci sono 102 uomini, stima con rigore statistico il Dipartimento degli Affari Sociali ed Economici dell’Onu. Una maggioranza che al netto della forza e dei privilegi di condizione e status legati al genere, si rivela debolissima quando si tratta della cura della propria salute. Non è un caso se l’aspettativa di vita a livello globale si attesta a 69 anni per gli uomini e 73 per le donne.
Gli uomini non si curano come dovrebbero. Non solo, gli uomini non fanno neanche prevenzione perché hanno difficoltà a concepirsi come vulnerabili. Spinto da queste convinzioni un medico di Trinidad & Tobago, Jerome Teelucksingh, organizza nel 1999 la prima giornata Giornata internazionale degli uomini, un appuntamento che riesce negli anni a mettere radici in più di 50 Paesi, da Singapore all’Australia, dagli Stati Uniti al Sud Africa, da Haiti alla Moldova. Anche in Italia si moltiplicano le iniziative di sensibilizzazione dedicate al benessere maschile e, da quanto emerge da uno studio appena pubblicato da Ipsos, le preoccupazioni di quel medico caraibico hanno ancora ben donde. In Italia di sicuro.
Gli italiani non fanno prevenzione. Colpa della scaramanzia
Gli uomini italiani, infatti, non fanno prevenzione. Per un maschio che effettua controlli periodici ci sono trenta donne che abitualmente lo fanno. A favorire il dilagare del gap è il timore tutto maschile di scoprirsi deboli. Lo mette nero su bianco il rapporto “La salute maschile: stile di vita e abitudini di prevenzione degli uomini italiani” realizzato dall’istituto guidato da Nando Pagnoncelli per la Fondazione Pro e presentato oggi, lunedì 19 novembre, a Napoli nell’ambito della prima edizione dell’evento “Androday. Percorsi di Salute al Maschile”.
Dallo studio emerge che il 37% degli italiani è convito che ad allontanare i maschi dalle visite di controllo sia il fatto che “quando si sta bene non si ha voglia di pensare alle cose brutte che potrebbero capitare”. Una convinzione radicata soprattutto tra le fasce d’età comprese tra i 35-54 anni (43%) e i 55-70 anni (42 per cento). Gli uomini, quindi, spesso non si controllano per scaramanzia. “Da qui la necessità di contribuire a una vera e propria rivoluzione culturale. L’uomo non fa prevenzione perché è schiavo della paura di scoprire di essere malato. Fare prevenzione non significa solo sottoporsi a visite mediche e seguire programmi di screening, ma è cambiare e migliorare il proprio stile di vita” sottolinea Vincenzo Mirone, presidente della Fondazione Pro e ordinario di Urologia alla Federico II di Napoli.
Sesso, il dialogo padre-figlio rimane un tabù
Chi nasconde a se stesso la propria vulnerabilità potrà mai confrontarsi con altri sulle debolezze che soprattutto in certe stagioni albergano l’esistenza? Sulle risposte da dare a esami che per “natura” si presume di dover superare senza problemi? Chi rifiuta di guardarsi allo specchio potrà mai riuscire con facilità a guardare negli occhi di chi più gli è vicino? E infatti dallo studio commissionato a Ipsos dalla Fondazione Pro emerge un altro dato molto significativo: il dialogo padre figlio sulla sessualità rimane un tabù. Due ragazzi su tre non hanno mai parlato di sesso con il proprio genitore.
E questo nonostante l’81% degli italiani dichiari che è molto importante o abbastanza importante che si parli di aspetti legati alla sessualità e alla vita sessuale, il dialogo tra padri e figli è ancora un tabù. Due figli su tre (il 66%), infatti, sostengono che nella loro vita non è mai capitato di affrontare l’argomento. Chi ne ha parlato, inoltre, nel 47% dei casi lo ha fatto poche volte e solo in occasione di momenti particolari.
Sembra comunque esserci una maggiore attenzione dei nuovi padri nei confronti della salute sessuale della propria prole. Coloro che hanno figli ancora piccoli, infatti, sostengono di avere intenzione di farlo in futuro. Ma le intenzioni, si sa, sono come una promessa di felicità. Certo, qualcosa si muove, il modello non è il Claudio Bisio de “Gli sdraiati” di Francesca Archibugi ma, per fortuna, non è nemmeno il Padre destinatario della celebra lettera di Franz Kafka.
Più studi più fai sesso?
A proposito di abitudini sessuali, altro dato curioso emerso dall’indagine sviluppata da Ipsos per la Fondazione Pro riguarda la relazione tra frequenza di rapporti sessuali e titolo di studio. I laureati dichiarano di avere rapporti sessuali tutti i giorni o quasi in una percentuale doppia rispetto alla media. Sommando i dati a partire da chi ha una frequenza di circa una volta per settimana a chi lo fa tutti i giorni o quasi, emerge che i laureati raggiungono complessivamente il 76% del totale. Per i diplomati la percentuale scende al 63%, per chi ha meno titoli di studio si va al 60 per cento.
Non solo, in contraddizione con la massima del Molleggiato, emerge che “chi lavora fa l’amore”: nel 3% dei casi tutti i giorni o quasi (contro l’1% di chi invece non lavora), nel 34% più volte la settimana (chi non lavora si ferma al 16%), in un altro 34% dei casi circa una volta per settimana (i disoccupati poco sopra: 39 per cento). Ne deriva che, sommando quanti dichiarano rapporti sessuali per non meno di “circa una volta la settimana”, quelli che lavorano raggiungono il 71%, quelli che non lavorano si fermano al 56 per cento.
Considerati i tassi di disoccupazione qualificata soprattutto al Sud, ovvero di laureati disoccupati, verrebbe da chiedersi se in questi casi prevalga il titolo di studio o, appunto, l’impiego.