Da oggi i videogiochi sono ufficialmente una malattia. Una patologia. Dopo un duro lavoro durato un decennio e diversi annunci, l’Organizzazione mondiale della sanità, nell’undicesima edizione della classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) che pubblica oggi, inserisce il “gaming disorder”.
Di fatto in questo modo si legittimano le paure di quelli che dicono che i videogame fanno male e si apre la strada per cure specifiche e persino per attivare rimborsi tramite assicurazioni, come se giocare a Fortnite, per citare quello che adesso va per la maggiore, equivalesse ad un incidente stradale.
La cosa è evidentemente molto seria visto che nel mondo due miliardi e seicento milioni di persone passano del tempo con i videogiochi (qui i dati di fatturato mondiale) e che in diversi casi si sono verificati stati di ansia, depressione e più in generale la famosa “impossibilità, incapacità di smettere”. Anche perché i videogiochi sono progettati per farti giocare più a lungo possibile (e spesso per monetizzare quel tempo vendendoti strumenti che ti fanno giocare meglio).
La cosa è molto seria e non mancano le storie di persone soprattutto giovani che si sono rovinati la vita per non essere stati in grado di uscire dallo schermo. E non serve andare a citare casi celebri quando spesso il problema lo abbiamo in casa con i nostri figli incollati alla tastiera.
Eppure qualche perplessità questa storia la lascia. E non solo perché mi sembra che sottovaluti completamente il valore educativo e in qualche caso didattico che molti videogiochi hanno (penso a Minecraft usato per imparare la storia e le geografia). Ma perché nella storia dell’umanità c’è sempre stato qualcosa che tutti usano e che si è scoperto che può far male. È stato così per la televisione, per la radio e persino per i libri. Nel 1850 il grande filosofo Shopenauer scriveva che “quando leggiamo qualcun altro pensa per noi” e che “chi legge molto perde la capacità di pensare”. Insomma, quello che ci fa male, come in quasi tutte le cose, non sono i videogiochi, ma il loro uso eccessivo.