Qualche giorno fa Gabriele De Giorgi, che dall’ottobre 2018 guida le relazioni istituzionali di Uber in Italia, è andato alla Camera dei Deputati per farsi ascoltare. A volte queste audizioni sono abbastanza inutili, di maniera. A volte no. Uber come sapete è l’azienda che dal 2009, prima e più di altri nel mondo, ha provato a rivoluzionare il settore della mobilità. Sfidando i tassisti con una app che ai tempi era davvero rivoluzionaria. Spesso però perdendo le sue battaglie. Un po’ perché le barricate per fermare il futuro hanno da sempre un certo successo, un po’ per una serie impressionante di valutazioni superficiali, frutto di quell’etica della Silicon Valley, “move fast and break things”, che qualche danno ha fatto e sta facendo.
Eppure Uber è tutt’altro che morta: è ancora presente in 600 città di 76 paesi del mondo, sostiene di avere ventimila dipendenti e 75 milioni di utenti. Sono numeri importanti. Quando era all’angolo, un paio di anni fa, ha mandato a casa lo spregiudicato fondatore e ha scelto un nuovo capo moderato, riflessivo, aperto alle idee degli altri, per realizzare gli stessi obiettivi: cambiare il modo in cui ci spostiamo.
L’audizione di De Giorgi a Montecitorio merita di essere segnalata per diversi fattori. lI più clamoroso: le scuse solenni presentate, “con chiarezza e convinzione”, all’Italia. “Prima di altri abbiamo commesso errori e abbiamo imparato da questi errori”, ha detto De Giorgi rinnovando “la volontà a investire e portare in Italia il nostro meglio”. Non è una pratica comune scusarsi. E sicuramente le scuse nascono anche dal fatto che oggi in Italia Uber è ridotta ai minimi termini: “Nel 2018 dieci milioni di persone hanno aperto la nostra app ma sfortunatamente solo una frazione ha avuto accesso ai nostri servizi” ha ammesso De Giorgi.
Uber insomma deve uscire dall’isolamento in cui si è stata spinta e si è cacciata e le scuse sono il primo passo necessario. Chissà se i tassisti le accetteranno. Forse no. Ma invece secondo me farebbero bene a farlo. E soprattutto farebbe bene chi ci governa ad affrontare finalmente il tema del traffico delle nostre città guardando al futuro e non al passato. Mi riferisco in particolare al ministro Danilo Toninelli che su questo terreno potrebbe prendere una iniziativa e provare ad uscire dalla portentosa caricatura che ne fa Crozza in tv. Il tema, il problema, è complesso assai: ma pensare di dare il reddito di cittadinanza a cinque milioni di persone per diciotto mesi assicurando loro aggiornamento professionale e tre offerte di lavoro, non è più semplice. Il tema del traffico cittadino tra l’altro ha impatto sulla qualità della vita di molte più persone degli aventi diritto al reddito di cittadinanza e avrebbe effetti dirompenti nella battaglia (timida) che dovremmo fare per ridurre l’inquinamento e raggiungere gli obiettivi che il pianeta si è dato per evitare guai molto seri.
Tornando ad Uber e alla mobilità, non si tratta di penalizzare chi, su una licenza di taxi, ha costruito la sicurezza della propria famiglia: questo non è accettabile, lo sanno anche ad Uber. Ma è necessario avere il coraggio di usare le tecnologie digitali a fin di bene. E quindi non per “uberizzare” le nostre vite, cioè creare migliaia di lavoratori a cottimo e non garantiti e che a loro volta non offrono garanzie; ma per fornire ai cittadini un servizio complessivamente migliore, e quindi meno traffico, meno inquinamento, meno disagi. E’ possibile?
Uber avanza delle proposte: come il carpooling, la corsa condivisa da più passeggeri che nel resto del mondo sta diventando pratica abituale. E’ una buona idea ma non basta. Il traffico delle grandi città è un tema complesso in tutto il mondo e non ha una soluzione facile. Ma restare come stiamo oggi in Italia, con il più basso numero di taxi per mille abitanti e tassisti sempre più poveri, non serve a nessuno. Nemmeno ai tassisti.
In fondo, e su questo Uber ha ragione, il trasporto pubblico nel suo complesso ha un solo avversario, i mezzi privati. Se facciamo questo passaggio, c’è spazio per tutti.