È inutile prendersela con i selfie. Ma è indispensabile provare a capire il fenomeno e farlo dopo la tragedia che ha visto un ragazzo salire sul tetto di un supermercato per farsi una foto “epica” ma che è precipitato in una condotta dell’aria lasciata aperta. Colpa dei selfie, si è detto, di questa mania che sembra aver contagiato tutti senza differenze di sesso, età, gusti. Va chiarito che i selfie non nascono quando è stata inventata la parola, nel 2013. Prima si chiamavano autoritratti e sono stati un caposaldo della storia dell’arte moderna (gli antichi no, non amavano il genere). Pensate a quelli celebri di Rembrandt o di Van Gogh. Ma ce ne sono anche di Leonardo da Vinci, Caravaggio e Michelangelo.
Il primo selfie con macchina fotografica risale al 1839, grazie ad un fotografo di Filadelfia il cui nome pochi ricordano. Ma invece i selfie con Polaroid di Andy Wharol negli anni ‘60 sono entrati nella storia della fotografia. Così come il primo di una lunga serie di selfie spaziali, realizzato nel 1966 da Buzz Aldrin che tre anni dopo diventerà il secondo uomo ad aver messo piede sulla Luna.
Tutto questo per dire che il bisogno di immortalarsi con la tipica faccia da selfie, tra il sorridente e il seduttivo, tra il vincente e il divertito, ha radici antichissime e in un certo senso nobili. E che gli smartphone, con le loro potenti fotocamere digitali incorporate, hanno solo dato sfogo ad un narcisismo che già esisteva nell’umanità. I selfie estremi sono però una pericolosa sotto categoria, che non riguarda solo i giovani (anche se sono adolescenti la metà di tutte le vittime), e non riguarda solo l’Italia (il paese che conta più morti è l’India).
In questi cinque anni nel mondo si sono registrati incidenti mortali di gente che ha provato a farsi una foto in cima a un grattacielo o a un canyon, nella bocca di un vulcano, sul ciglio di un geyser, sotto l’onda di uno tsunami, accanto ad un orso ferito o ad un serpente addormentato o ad uno squalo tenuto a distanza da una gabbia, o aggrappati ad un elicottero. Anche qui, le cosiddette stupidissime “prove di coraggio” non le hanno inventate Internet e i social media, ci sono sempre state. Sono un modo per affermarsi, per provare una emozione forte e darsi un tono.
Ma certo la condivisione immediata in rete e il conteggio dei like le hanno rese irresistibili. Perché? Perché coprono un vuoto interiore. Raccontano di felicità che spesso non esistono. Mostrano sorrisi posticci che svaniranno subito. Cercano consensi effimeri da cui far dipendere la considerazione di sé. Che deve essere davvero bassa se la vita stessa viene messa a rischio per una foto. E’ questo ll problema. Il vuoto in cui precipitano le vittime spesso è dentro di noi.